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    Magazzino

    La versione di Barney

    • di Massimo Citi
    • Luglio 3, 2014 a 8:39 pm

    barney

    La versione di Barney di Mordecai Richler, Adelphi, è un romanzo interamente basato sulla menzogna o quantomeno sulla parzialità. Protagonista e io narrante è Barney Panofsky, impresario televisivo della TV canadese, ebreo non osservante con tre matrimoni falliti alle spalle.
    Barney Panofsky racconta – sia pur disordinatamente – la propria vita, allinea i propri errori, cerca di affrontarli onestamente ricordando anche i momenti nei quali si è comportato come un verme, si sforza di discolparsi dalle accuse più gravi (tra le quali quella di aver assassinato il suo migliore amico) e ammette la propria scarsa sensibilità, la propria cecità e grossolana faciloneria. Il lettore tuttavia si rende conto ben presto che all’interno della finzione-diario si annida un’ulteriore finzione. Infatti le pagine di Panofsky sono state chiosate, commentate, probabilmente anche riviste e riorganizzate da uno dei suoi figli, Michael Panofsky. D’altro canto il lettore non possiede alcuno strumento efficace per stabilire quanto vi sia di falso e autoassolutorio nel racconto di Barney, se non basandosi sulle contraddizioni interne, sulle versioni non del tutto coerenti, sull’insistere su certi particolari o momenti.
    Barney, per quanto simpatico, dotato di verve e comunicativa, ricco di uno humour tipicamente yiddish che gli permette di considerare con scetticismo le altrui vanità, non è esattamente un innocuo brav’uomo. Si è arricchito grazie ad alcuni programmi televisivi pericolosamente idioti, ha sempre provato un’invidia imbarazzante e un livore detestabile per alcuni amici di gioventù dotati di un talento artistico che lui non possiede e ha l’abitudine di trovare nel succedersi degli eventi – nel destino, si direbbe – la giustificazione anche ai suoi comportamenti più condannabili.

    Barney's Version

    Paul Giammatti nella “Versione di Barney” cinematografica

    Un superficiale con qualche tratto decisamente puerile, un narciso beone, un impreditore cinico, un cascamorto imbarazzante, un padre assai poco assiduo e un fanatico di hockey su ghiaccio. Quanto basta e avanza per detestarlo. Eppure non è così. Gli errori e le misere scuse che Barney allinea nel proprio diario, la debolezza e la fragilità che esprimono impediscono al lettore di giudicarlo severamente. Ciascuno commette i propri errori, ciascuno ha molto o poco di cui pentirsi, quasi nessuno può riuscire a essere assolutamente onesto con se stesso e con gli altri. L’umana debolezza dell’insopportabile Barney Panofsky è anche la nostra. Perdonandolo, sia pure con una smorfia, stringendosi nelle spalle e scuotendo la testa, si accetta di non essere perfetti, di mentire a noi stessi decine di volte al giorno. Di essere anche noi, probabilmente, legati alla nostra sorte, ciechi quando non riusciamo davvero a vedere ciò che ci circonda, un po’ meschini, insensibili e – perché no? – un po’ stupidi. Succede, eccome se succede.
    Richler è riuscito attraverso il personaggio di Barney a raccontare l’umana debolezza, la condizione che più di tutte cerchiamo di rimuovere e cancellare. Barney non riesce a perdonarsi perché fatica a riconoscere il proprio peccato e percorre e ripercorre instancabilmente lo stesso cerchio di pensieri e di rimorsi. Nel farlo riesce comunque a divertire il lettore, che per lo spazio delle pagine del libro riesce a riconciliarsi anche con la propria disperazione. E al termine della lettura si ha nettamente la sensazione di avere a lungo sorriso a un funerale, perché divertimento e disperazione sono molto più vicine di quanto ci piaccia credere.

    Mordecai Richler, La versione di Barney
    Adelphi, gli Adelphi 2005, pp. 490, € 13,00, trad. Matteo Codignola

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