Le prime pagine sono da noir in salsa russa. Una punizione esemplare? Una vendetta trasversale? Un regolamento di conti tra gruppi criminali?
Il racconto è crudo, i malavitosi o presunti tali privi di scrupoli. Si accaniscono sulle loro vittime con tutta la crudeltà ridondante di un rituale mafioso. Poi, il colpo di scena. I criminali sono i «missionari» di una potente setta, le loro «vittime» altrettanti candidati.
L’effetto del brusco riorientamento è, ovviamente, il sorriso. Sorokin, vecchia volpe, ce l’hai fatta un’altra volta. Si prosegue così, tra un rituale e l’altro: randellate sul torace, rantoli e nuova vita. «Nuova vita» quando va bene. Se va male… beh, peccato. Convinzione della setta è che in alcuni individui – assai pochi, per la verità – il cuore possa letteralmente parlare e che questa capacità sia il segno di una superiore e arcana sensibilità. Come tanta angelica virtù possa convivere senza difficoltà con una condotta da trafficanti di droga non sembra turbare nessuno. In fondo «gli altri», cioè chi non è dotato del dono di parlare con il cuore, è una semplice «macchina di carne». Untermenschen, si sarebbe detto in un altro tempo e luogo.
Paganeggianti, rigorosamente vegetariani, del tutto casti e un po’ infantili gli «eletti» richiamano alla mente non soltanto certi aspetti del nazismo magico ma anche i tanti gruppi e sette che reinterpretano il mondo nel nome di una mistica totalizzante e di un’innocenza dai risvolti oscuri e violenti. Al loro confronto i veri criminali – mafiosi, assassini, narcotrafficanti – appaiono candidamente naïf, individui confusi e pasticcioni e del tutto umani nella loro sfiducia verso la società e i propri simili.
La collisione tra queste categorie di individui in una Russia definitivamente alla deriva produce una comicità dell’assurdo sorretta da norme rigorosissime, una danza macabra nella quale vengono inglobati e frullati miti e pseudomiti del xx secolo, i misteri del comunismo sovietico come il meteorite siberiano di Tungushka.
Se il tessuto del romanzo è fatto di premesse deliranti che conducono a esiti allucinanti, sono i dialoghi della prima parte a regalargli leggerezza e brio. È raro incontrare dialoghi anche solo pallidamente animati, vivaci e divertenti come i suoi. Sorokin è anche sceneggiatore, e questo vuol dire, e librettista per il teatro Bol´šoj. Ma il suo ritmo – egregiamente reso dalla traduzione di Dinelli – ha qualcosa di inimitabile, una musicalità fatta di sincopi, sospensioni e accelerazioni in grado di dare un profilo nitido a ogni personaggio.
Difficile dire quanto e se un romanzo come Ghiaccio possa essere compreso e apprezzato dal pubblico italiano. Uno dei bersagli di Sorokin è quel misticismo panslavo fortemente colorato di superomismo e antisemitismo – basterà ricordare che i famigerati Protocolli dei Savi anziani di Sion sono stati un’invenzione della polizia segreta zarista – ritornato vivo e vitale dopo la fine del comunismo sovietico, le cui premesse e rappresentazioni del mondo non ci sono per nulla familiari. Il rischio per il lettore italiano è, in sostanza, quello di faticare a comprendere il senso di certi passaggi e la destinazione di alcune osservazioni. Un difetto che diviene più evidente nella seconda parte del testo, il «romanzo di formazione» di Varvara, dove i riferimenti alla storia russa della prima metà del secolo sono decisamente più frequenti.
Insomma, se leggere Sorokin può risultare a tratti poco agevole, resta il fatto che non leggerlo – soprattutto per chi ama la letteratura russa – può essere davvero un’occasione perduta.
Vladimir Sorokin, Ghiaccio
Einaudi, ed. 2006,
pp. 322, € 16,50
trad. M. Dinelli
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