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    Magazzino

    Una comunista tedesca tra gli hopi

    • di Massimo Citi
    • Marzo 14, 2012 a 8:04 pm


    Uscito nell’autunno del 2011, un libro non facile da terminare e, ancor di più, da accettare.

    Si tratta de La città degli angeli di Christa Wolf, edito in lingua originale nel 2010 e che racconta il viaggio dell’autrice nel 1992-1993 in California. Un viaggio e una permanenza che appaiono complicarsi e confondersi con il passare delle pagine. È una Wolf incuriosita e appassionata quella della prima parte del libro, un’europea sorpresa e divertita dall’American Way of life, talvolta scettica, in altre occasioni affaticata, sempre tesa a cercare di afferrare il senso e l’enigmatico lascito delle presenze degli esuli tedeschi nella California degli anni Quaranta, personaggi come Thomas Mann, Bertolt Brecht, Lion Feuchtwanger, dei quali segue le tracce, incontra i discendenti, riflette sul loro lascito e sulla loro profonda estraneità al nuovo mondo.

    Poi, gradualmente, entra in scena il suo rapporto con la DDR. La sua iniziale adesione al comunismo e il suo rapporto con la STASI vengono urlati sui giornali della Repubblica Federale, tanto che tracce, momenti, osservazioni cominciano a raggiungerla in California.

    Bertolt Brecht

    Viene presentata come un’opportunista, una finta oppositrice del regime comunista ma in realtà a lui fedele, tanto da diventare una spia a danno degli intellettuali non allineati.
    Facili accuse che col tempo finiranno per mostrare la loro povertà.
    Ma è inevitabile per Wolf iniziare un percorso di riflessione, dedicarsi alla ricostruzione di momenti dimenticati o rimossi della sua vita in Germania. Le ragioni della sua antica scelta e i motivi, mai del tutto compresi, del suo complesso e spesso contorto rapporto con il comunismo tedesco e con la sua fallita realizzazione di marca sovietica, la DDR.

    Ci si può logorare anche sulle domande sbagliate.

    Scrive l’autrice.
    Una serie di riflessioni, dubbi, rammarichi, deduzioni e controdeduzioni scritte rigorosamente in maiuscoletto all’incrocio di incontri, viaggi, conversazioni con il mondo reale che la circonda, divenuto, da un giorno all’altro, assurdo e inconoscibile.

    A volte mi piacerebbe sapere come sono disposti dentro di me gli strati temporali per cui sono passata e che nei pensieri attraverso così agevolmente: sono davvero sovrapposti ordinatamente?


    A tratti toccante, talvolta spaesata, quietamente disperata o  confusa, Wolf non riesce, in realtà, a ritrovare il verso del suo pensiero, coartato sotto il nazismo, ricattato sotto il comunismo e infine disperso dal capitalismo trionfante.
    E il lettore la insegue, tra frammenti, spezzoni, attimi e anni che fatica a ricostruire, più distratto che condotto per mano dalle numerose interruzioni, dalla presenza costante ma incongrua del nuovo mondo che urla per richiamare la sua, la nostra, attenzione.
    Un libro più inutile che sbagliato, prezioso per alcuni passaggi ma anche, disperatamente vago e incerto. Wolf cerca il suo personale «filo rosso» ma senza riuscire a dare un  significato univoco alle tante scelte compiute.
    Chi l’ha conosciuta nelle sue opere maggiori non stenterà a riconoscerla, ma dovrà accettarne le resistenze, le ombre, l’inutile e contorto vagare tra il socialismo ideale delle sue convinzioni e la sua realizzazione terrena, tanto diversa, tanto fatalmente idiota.
    Una lettura non facile e che, in fondo, regala molto poco, restituendoci soltanto un’immagine stinta e confusa di una grande scrittrice.

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    Tag: Christa Wolfcomunismoistantaneenarrativa autobiograficaRecensioni

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