Da tempo attendevo l’uscita in libreria di un saggio sul regime collaborazionista di Vichy: pochi mesi fa l’editore Il Saggiatore ha provveduto a colmare questa lacuna, e per di più attraverso uno dei più autorevoli esperti sull’argomento, Robert Paxton. Questo storico americano è assurto alla notorietà della cronaca nel 1997, quando ha testimoniato nel corso del processo a carico di Maurice Papon, ex-ministro gollista ed ex-prefetto del regime di Vichy, reo di aver collaborato alla deportazione di centinaia di ebrei. Sia durante il processo che nel libro Paxton ha evidenziato, con dovizia di argomentazioni, come il regime di Pétain godesse di una notevole autonomia d’azione al fianco dell’invasore tedesco, e che atti nefandi come la persecuzione degli ebrei non furono imposti, ma liberamente intrapresi. Secondo storici precedenti, come il francese Aron, il regime di Vichy era nato per evitare danni maggiori alla Francia, opporre uno “scudo” ai diktat del vincitore, mantenere integra la struttura amministrativa dello stato e filtrare, attenuare le pretese dei tedeschi. A questa teoria, che ricalcava la tesi difensiva di Pétain e collaboratori durante i processi di epurazione del dopoguerra, Paxton oppone una verità ben diversa, che affonda le sue radici nei conflitti sociali del primo dopoguerra. Non dobbiamo dimenticare che, dopo la prima guerra mondiale, per buona parte dell’opinione pubblica francese il pericolo più grande non era la Germania, ma la Russia bolscevica e la possibilità che il contagio della rivoluzione si diffondesse all’Ovest. Già all’inizio del 1918 i generali francesi non esitarono a distogliere dal fronte un corpo d’armata (benchè si ritenesse imminente un’offensiva germanica) per inviarlo a sedare i numerosi scioperi indetti nel Meridione. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, poi, non erano molti i francesi disposti a morire per la Polonia.
La sconfitta bruciante seguita alla guerra-lampo provocò in Francia un vero e proprio choc, e scatenò una profonda autocritica, secondo cui la disfatta era da attribuire ad una degenerazione dello spirito francese e ad una perdita dei valori nazionali, di cui la maggiore responsabile era la Terza Repubblica. La maggior parte del Paese accettò così di porsi nelle mani dell’anziano ma carismatico Pétain, l’eroe di Verdun. Pochi all’inizio si schierarono con De Gaulle, considerato un mezzo matto se non un disertore. Privato di più della metà del territorio nazionale, il governo di Vichy scelse la strada di una collaborazione neutrale con Hitler, per ottenere il rimpatrio dei prigionieri (che avvenne solo in minima parte) e per assicurarsi il mantenimento della sovranità sui Territori d’Oltremare, magari espandendoli a scapito dell’Inghilterra. Perciò il regime di Pétain si spinse in un vicolo cieco, cercando di soddisfare i desideri dei tedeschi oltre le loro più rosee aspettative, con l’invio massiccio di manodopera e materie prime in Germania, con le deportazioni degli ebrei, con l’ostilità verso gli Alleati, senza che queste concessioni fossero mai contraccambiate dal “partner” con atti concreti. In nome di una “rivoluzione nazionale”, in cui si mescolavano valori della Rivoluzione del 1789 con quelli della destra storica anti-dreyfusarda, in cui uno spirito laico si confondeva con il recupero del ruolo della Chiesa gallicana nella società, Pétain e i suoi collaboratori fecero perdere alla Francia quella dignità che essi vantavano di voler mantenere. Un regime dalle molte anime, dunque, come quello italiano di Salò, ma con una fondamentale differenza: il primo ebbe un ampio consenso popolare, e fa bene Paxton a puntualizzare come fino al novembre 1942, quando i tedeschi occuparono tutto il suolo francese, questo consenso fosse ancora maggioritario.
Il libro di Paxton riapre una ferita mai completamente cicatrizzata nell’animo della Francia. Lucidamente impietosa è l’analisi che l’autore pone a chiusura del libro:
Il regime di Vichy, continuando a ricomprare a un prezzo sempre più alto la propria sovranità fantasma, rese molti francesi complici di atti e politiche che normalmente non avrebbero accettato. […] Come spiegare queste scelte infami? […] Al fondo c’era un motivo elevato a teoria: il disordine sociale è il peggiore di tutti i mali. Alcuni degli uomini più capaci spesero il proprio ingegno per tenere a galla lo stato francese in circostanze sempre più dubbie. Chi avrebbe mantenuto l’ordine, chiedevano, se lo stato avesse perso la propria autorità? Ma per salvare lo stato stavano perdendo la nazione. […] Quando la drammatica alternativa si pose, continuare a fare un lavoro che comportava rischi morali e astratti, o praticare invece la disobbedienza civile, esponendosi così a rischi fisici e immediati, anche i francesi meglio intenzionati continuarono a fare il proprio lavoro. […] I lettori, come l’autore, preferiranno non riconoscersi in questi tipi umani. Viene spontaneo identificarsi con la Resistenza e dire: “È quello che avrei fatto io”. Ma se ci trovassimo in una situazione come quella, molto più probabilmente agiremmo, ahimè, come la maggioranza di Vichy.
Eppure, gli atti degli occupanti così come quelli di coloro che subivano l’occupazione indicano che ci sono momenti estremi in cui per salvare i valori più profondi di una nazione bisogna disobbedire allo stato. Uno di questi momenti venne in Francia dopo il 1940.
Saggio molto interessante, che mi ha fatto scoprire aspetti a me prima ignoti sul caso Vichy, più complesso di quanto sembri. Un po’ pesante nella seconda parte, il libro presuppone una qualche conoscenza degli eventi storici dell’epoca, che in buona parte l’autore assume per acquisiti dal lettore.
Robert O. Paxton
Vichy 1940-1944. Il regime del disonore
Il Saggiatore 1999, NET 2002 – pp. 416
ediz. Fuori commercio
da LN-LibriNuovi 13 – marzo 2000