Maeve Brennan
La visitatrice
Rizzoli/span>
€ 7,20
trad. A. Arduini
«Sunt lacrymae rerum», sostenevano i Latini. Anche le «cose» possono piangere: eccome! Lo dimostra in maniera eccellente questo racconto lungo, o se si vuole romanzo breve.
L’autrice è un’irlandese trapiantata in America, collaboratrice per più di trent’anni della prestigiosa rivista New Yorker e morta nel 1993. La Brennan è nota al pubblico di lingua inglese per due raccolte di racconti: In and Out of Never-never Land, del 1969, e Christmas Eve, del 1974. A quanto ci risulta, nessuno dei due libri è stato mai tradotto nella nostra lingua.
La visitatrice, scritto presumibilmente verso la metà degli anni Quaranta, è rimasto a lungo inedito, fino a quando, nel 1997, il dattiloscritto non è stato ritrovato tra le carte d’archivio dell’editore newyorkese Sheed & Ward, depositate in lascito presso la Biblioteca dell’Università di Notre-Dame, nell’Indiana. Tre anni dopo, nel 2000, il racconto è uscito negli Stati Uniti e oggi, a cinque anni di distanza, viene pubblicato anche qui da noi.
La trama è presto detta. Una giovane dublinese, Anastasia King, è vissuta per sei anni a Parigi insieme alla madre, dopo la separazione dei genitori. Adesso, la madre è morta e la ragazza, ventiduenne, decide di tornare a Dublino, nella casa della nonna paterna, dove ha trascorso l’infanzia. L’accoglienza della vecchia signora è, a dir poco, glaciale. Quando poi Anastasia, quasi timidamente, le comunica la propria intenzione di fermarsi a vivere in quella casa «per sempre», la nonna le oppone un netto, deciso rifiuto: non è assolutamente disposta a tenerla con sé, non ne ha la minima intenzione.
La colpa della ragazza? Quella di aver seguito all’estero la madre. Questa decisione, secondo la nonna, ha contribuito ad affrettare la morte prematura del padre di Anastasia, il figlio unico e amatissimo dell’anziana e inflessibile padrona di casa.
Inutilmente, nei giorni e nelle settimane successive, la ragazza cercherà di farsi accettare e di sciogliere la cappa di gelo e di risentimento che incombe sulla casa e sulla vita della nonna. Alla fine, Anastasia dovrà comunque riprendere il treno e lasciare definitivamente Dublino.
Detto questo, possiamo ritornare all’assunto dal quale siamo partiti, quando dicevamo delle «lacrime delle cose».
Nel racconto della Brennan, sono soprattutto i luoghi e gli spazi a trasmettere il senso profondo della vicenda. I dialoghi, infatti, risultano estremamente pudichi, come trattenuti, con battute pronunciate a mezza voce, e non vanno quasi mai al cuore delle questioni affrontate. I pochi personaggi in scena sembrano costretti entro i limiti di comportamenti rigorosamente corretti e appaiono incapaci di dare sfogo in maniera esplicita ai sentimenti e risentimenti che il tempo e gli avvenimenti hanno accumulato dentro ciascuno di loro.
E allora, ecco che buona parte del significato e del fascino della novella vengono sapientemente veicolati dalla narratrice attraverso la descrizione degli ambienti. A cominciare dalla grande casa della nonna: alta, «con pesanti gradini di pietra» che conducono alla porta d’ingresso; piena di stanze buie, fredde, percorse da gelidi spifferi, la casa «assumeva un’aria introversa, un aspetto severo e indifferente». Il salotto, ad esempio, dove avvengono tutte le conversazioni tra Anastasia e la nonna, chiuso e isolato da ampie, pesanti tende «dall’odore stantio», è «una stanza enorme e piena d’ombre, e a illuminarla c’erano soltanto il fuoco e una lampada… Quella luce lambiva ondeggiando il salotto, come un velo d’acqua sulle pietre».
Oppure si veda la descrizione del giardino interno, sul retro, che Anastasia, tornata nella sua cameretta di bambina, contempla dalla finestra: «I bassi muri di pietra si stringevano attorno alle aiuole vuote e al fazzoletto d’erba indurito dal gelo o fradicio di pioggia. La panchina di legno accanto al laburno non si asciugava mai abbastanza da potercisi sedere. Guardandolo dalla casa, il giardino pareva racchiuso in un rigido silenzio»; e qualche riga più avanti: «stare lì d’inverno significava essere tagliati fuori, abbandonati… e in ogni caso non offriva alcuna accoglienza».
Il medesimo sentimento di inospitalità e di esclusione è trasmesso ad Anastasia, e al lettore, dagli esterni di una Dublino costantemente battuta dalla pioggia, dai parchi cittadini deserti e intirizziti dal gelo invernale, da Noon Square, la piazza alberata sulla quale affaccia la casa della nonna, che rapidamente viene inghiottita da un precoce crepuscolo e sprofonda nel buio «con i suoi lampioni sparsi, gli alberi incombenti e i passanti intabarrati», mentre la ragazza, con la fronte appoggiata al vetro freddo della finestra, ripensa alla madre, morta a Parigi da nemmeno un mese.
Insomma, «a house is not a home», come diceva una vecchia canzone americana; almeno, non sempre lo è; sicuramente non lo è in questo caso, nonostante Anastasia, all’inizio del racconto, si sforzi di crederlo: «l’Irlanda è casa mia. Dublino è la mia città», si ripete la ragazza per vincere l’angoscia che di lei si è impadronita, sul treno del ritorno in patria.
Rimarrà disingannata e delusa: prima ancora dall’aspetto dei luoghi che dalle parole della nonna.