Vandana Shiva
Le guerre dell’acqua
(Feltrinelli)
«Ognuno di noi è responsabile del kumbh, la brocca dell’acqua sacra» è la conclusione del libro, in riferimento al mito della discesa del Gange, in forma di fanciulla, sulla terra, la cui caduta fu attutita dai capelli di Shiva. L’acqua e la sua privatizzazione, le guerre per l’acqua raccontate dai mass media ora come conflitti tribali ora come guerre religiose, la progressiva distruzione del diritto naturale all’acqua e dei diritti ripari, la corsa all’inclusione nei meccanismi di mercato di una risorsa non sostituibile, lo spreco, il gigantismo dei progetti di deviazione e di controllo dei fiumi che si sono susseguiti nella storia sono trattati dall’autrice con grande precisione. Non troverete in questo libro riferimenti all’Italia: vi sono descritte, soprattutto, vicende legate al subcontinente indiano, ma anche agli Stati Uniti, al Canada, ed in misura molto minore all’Africa sub-sahariana, al Medio Oriente e all’America centro-meridionale. Le guerre dell’acqua, «al tempo stesso paradigmatiche – conflitti su come percepiamo e viviamo l’esperienza dell’acqua – e tradizionali, combattute con armi da fuoco e granate», ci circondano da tempo, anche se non sono quasi mai riconosciute come tali. La desertificazione, spesso legata alla deforestazione e a grandi dighe, per la cui costruzione chi subisce i costi non ne riceve i benefici, la salinizzazione progressiva di corsi d’acqua come il Pecos River o il Rio Grande e di vaste estensioni di terreno agricolo come le fattorie delle High Plains in Texas, l’avvelenamento da arsenico connesso alla perforazione di pozzi tubolari di profondità, come avviene in Bengala, sono solo alcuni dei danni documentati dall’autrice.
Sono poi particolarmente interessanti, a mio parere, i percorsi storici che documentano la cancellazione dei diritti ripari, della proprietà comune, della conservazione e dell’uso ragionevole delle risorse idriche, sul piano sia teorico sia pratico. L’autrice cita, per esempio, il diritto di appropriazione affermato dai coloni nel Far West (sulla base del qui prior est in tempore, potior est in jure), la teoria di John Locke sulla proprietà individuale come diritto connaturato all’essere umano, ma anche rielaborazioni relativamente più recenti, quale quella di Garret Hardin, autore di The tragedy of Commons, abbastanza noto nell’ambito della filosofia del diritto. Inoltre, il testo risale al controllo da parte dei colonizzatori britannici, completamente privi di conoscenze relative alla gestione dell’acqua, del regime idrico indiano, per arrivare fino ai conflitti interstatuali per lo sfruttamento dell’Eufrate, del Giordano, del Nilo, del Colorado e alla recente, rovinosa «Rivoluzione verde».
E rispuntano vecchie conoscenze dei giorni nostri, il WTO e la Banca Mondiale, le partnership pubblico-privato, caratterizzate da costi pubblici e profitti privati, le poche grandi compagnie transnazionali.
Il libro parla della progressiva scomparsa delle mangrovie, della diffusione di piantagioni di eucalipto o di canna da zucchero, di cementifici, zuccherifici, miniere, delle alluvioni e degli uragani devastanti dell’ultimo ventennio, della sostituzione di colture, della diffusione dell’acqua-coltura, dell’invasione dell’acqua in bottiglia. «Scarsità e abbondanza non sono dati di natura, bensì prodotti delle culture dell’acqua. Culture che sprecano acqua o distruggono la fragile rete del ciclo creano scarsità anche in condizioni di abbondanza». Il lago Aral, per esempio, la quarta massa d’acqua dolce per grandezza, è stato fortemente danneggiato e depauperato in seguito all’introduzione di attività agricole insostenibili e ora, come scrive un poeta usbeco, Muhammed Salikh, «non si può riempire l’Aral con le lacrime».
Distruggere le risorse idriche e i bacini forestali e acquiferi è una forma di terrorismo. Negare ai poveri l’accesso all’acqua privatizzandone la distribuzione o inquinando pozzi e fiumi è anche questo terrorismo. Nel contesto ecologico delle guerre per l’acqua, i terroristi non sono solo quelli che si rifugiano nelle caverne dell’Afganistan». «La crisi idrica scaturisce dalla fallace identificazione del valore con il prezzo monetario. Spesso invece le risorse possiedono un valore altissimo pur non avendo prezzo […] Oceani, fiumi e altre masse d’acqua hanno svolto funzioni importanti come metafore della nostra relazione con il pianeta. […] Analogamente, l’idea che la vita è sacra attribuisce un alto valore ai sistemi viventi e si oppone alla loro mercificazione.
Qualche raro refuso tipografico che tuttavia da Feltrinelli non ci si aspetterebbe, e – segnalata per pura malignità di vecchia docente ex cathedra – la traduzione di «Commissione europea», come organo esecutivo dell’UE, con «Comunità europea», più volte. Poco male, in fondo, siamo o non siamo ormai abituati a ben altri errori e da ben altri pulpiti?
da LN-LibriNuovi 26