Una delusione atroce.
Uno di quei libri che si ricordano con rabbia. Per la frustrazione e il tempo perduto.
Eppure J. M. Coetzee ha parlato di una storia «misteriosa e avvincente». E io di J.M.Coetzee, grandissimo scrittore, mi fido come del babbo.
Quindi i casi sono due. O Coetzee ha scritto il suo commento per pura generosità (e senza aver letto il libro) o è accaduto qualcosa nel corso della traduzione.
Ma non voglio sembrare troppo cattivo. «Misteriosa» la storia lo è sicuramente. Come no. Per parecchi motivi.
Kenneth Harvey, probabilmente non troppo sicuro della qualità del gotico del suo testo l’ha infatti reso sovramisterioso, supermisterioso, ipermisterioso. Al mistero degli abitanti di Bareneed che cessano di respirare si aggiungono il mistero del leggendario squalo bianco, il mistero degli annegati che ritornano dalle profondità marine, il mistero dei morti/non morti che cercano di ritornare tra i vivi ma vengono smascherati perché puzzano di pesce, il mistero dell’epidemia di qualche decennio prima, il mistero delle radiazioni elettromagnetiche responsabili di tutte le possibili stranezze, il mistero della paleoetnostupidità di parecchi membri della comunità costiera, il mistero dello tsunami che tarda per il tempo necessario a salvare la pelle a qualche personaggio del romanzo, il mistero del marinaio Nesbitt che forse ha capito tutto o forse non ha capito nulla, il mistero dei segni nel cielo visti dal capitano French, il mistero del repentino rimbambimento di Joseph Blackwood e, last but not least, il mistero dell’idioma di Mrs. Laracy e di Tommy Quilty.
E qui ritorniamo alle perplessità sulla traduzione, della quale è legalmente responsabile Alessandra Montrucchio.
Montrucchio, infatti, trovandosi alle prese con ampie parti in vernacolo di Terranova ha pensato bene di risolverlo in dialetto abruzzese. Il risultato è veramente urticante. A parte la fatica di decodificare un dialetto privo di tradizione letteraria, a parte gli insopportabili vezzi di Mrs. Laracy (il «’na schiccheria» liturgicamente ripetuto ad ogni frase fino a scatenare istinti omicidi nel lettore) ciò che finisce per distruggere il già non martellante ritmo del romanzo è la sensazione di leggere Pappagone o un suo congiunto chissà come approdato sulle coste del Canada Orientale. Il risultato è che si finisce per saltare tutte le parti in vernacolo montrucchiese senza che, peraltro, nasca il dubbio di una sensibile perdita di senso del romanzo.
In quanto all’«avvincente»… Beh, i passi dotati di un ritmo accettabile sono ben pochi e comunque sabotati da un’infinità di elucubrazioni, esitazioni, osservazioni e riflessioni inopportune o estemporanee. E di nuovo è forte il sospetto di insicurezza. Come se Kenneth Harvey volesse a tutti i costi rassicurarci che i suoi personaggi – come quelli di chiunque altro – pensano, soffrono, si emozionano, ricordano, desiderano, si struggono e si spaventano. In mano ad Harvey l’indiretto libero diviene così ingombrante e pericoloso come la trave sulla spalla tipica del cinema muto che, comunque venga girata, finisce per fare vittime.
In quanto alla vicenda e al suo scioglimento, il romanzo è semplicemente troppo prolisso e troppo confusamente ambizioso per riuscire a reggere con dignità fino al termine. A parte la stucchevole morale finale degna di uno spot del Mulino Bianco («si stava meglio quando si stava peggio»), ho avuto la netta sensazione che scopo di Harvey fosse quello di costruire un romanzo di modello kinghiano – la piccola comunità isolata e aggredita dai propri fantasmi – ma camuffato in modo da rassicurare critici e recensori che in realtà ben più nobili fossero i suoi intenti. Totale, è riuscito a scrivere una gothic novel dal ritmo oleoso funestata da personaggi dai tratti emotivi tanto eccessivi quanto schematici.
Mi rendo conto che resta aperta la questione del giudizio di J.M. Coetzee e della traduzione.
Io getto la spugna e lascio a qualcuno più bravo di me il compito di dipanare quest’ultimo mistero.
A parlar bene del romanzo , anzi benissimo «La Repubblica» e i suoi addentellati come «D».
Non è la prima volta che trovo entusiasticamente recensiti su testate romane libri editi da case editrici romane. Minimum Fax, Fanucci, Einaudi Stile Libero, Fazi sembrano capaci di scoprire o ripubblicare soltanto capolavori. Alla prova della lettura non pochi dei «capolavori» si rivelano spesso, nella migliore delle ipotesi, diligenti esercizi di scuola (di scrittura creativa).
Che esistano rapporti di amichevole collaborazione tra chi scrive per i quotidiani romani e chi lavora per le case editrici romane è appena normale. Ma questo non significa che per noi lettori sia salutare prendere per buoni i loro entusiasmi.
Kenneth J, Harvey
La città che dimenticò di respirare
Einaudi Stile Libero
€ 16,50
trad. di A. Montrucchio
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