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    TerraNova

    Due recensioni a un solo libro

    • di Melania Gatto
    • Giugno 17, 2012 a 5:06 pm



    Ubik di P.K.Dick è un romanzo uscito in lingua originale nel 1969 e pubblicato per la prima volta in italiano come Ubik mio signore da Galassia, rivista di sf edita da La Tribuna di Piacenza. In seguito il romanzo fu acquistato e ristampato da Fanucci che lo pubblicò con il titolo Ubik e traduzione di Domenico Cammarota. Nel 1998 Fanucci ristampò nuovamente Ubik, con traduzione di Giovanni Montanari e introduzione di Sergio Cofferati, eliminando definitivamente la traduzione di Cammarota che infatti non compare più nella bibliografia di P.K.Dick in italiano.
    Nuova ristampa nel 2003 con traduzione di Paolo Prezzavento e ancora, sempre tradotta da Prezzavento, nel 2007 e nel 2011. In questa edizione, a € 6,90 è attualmente disponibile.
    Breve e doverosa introduzione a un libro dalla storia complessa e intricata. La scheda in fondo alla doppia recensione riporta unicamente i dati dell’edizione attualmente in commercio. 
    Non meno complessa la vicenda del rapporto tra LN-LibriNuovi e il libro di Dick. La prima recensione uscì infatti nel 2000 a firma di Melania Gatto e la seconda nel 2004 a firma di Massimo Citi. Tutte e due uscirono poi sulla versione on line di LN, la prima nello speciale dedicato a P.K.Dick, la seconda come recensione nell’area TerraNova.  L’idea di ripubblicarle insieme è stata molto recente. Una recensione è stata scritta da un personaggio virtuale e una da un personaggio reale, ma questo non dovrebbe essere un problema. In LN questo genere di scherzi erano un tempo piuttosto comuni…

    di Massimo Citi


    Sarà bene chiarire una cosa: Ubik non è un libro che si possa liquidare con una recensione, dal momento che probabilmente è uno dei pochi testi scritti nella seconda metà del ‘900 sul quale tra un secolo si scriveranno tesi di laurea e si terranno convegni, si organizzeranno concorsi a cattedre e si faranno edizioni commemorative.
    Per stendere una recensione che sia vagamente all’altezza del testo bisognerebbe scrivere per duecento pagine ed essere contemporaneamente Tzevetan Todorov, Marshall Mc Luhan e Teillard de Chardin.
    Ubik è un’affascinante dimostrazione dell’insufficienza del pensiero lineare, costruttivo, cripto-positivista, meccanicista che ha dominato gUbli ultimo centocinquant’anni: è il sintomo di una crepa, una malattia nascosta.
    Dick costruisce il testo a ritroso, procedendo per straniazioni successive, per apparenti nuove acquisizioni che si rivelano ben presto altrettanti sottouniversi non-gerarchici. Giunge a insidiare la base del pensiero razionale – il rapporto causa/effetto – sostituito da una pluralità di interazioni, eventi, percezioni che non conducono ad un’unica soluzione necessaria ma a numerose soluzioni possibili, anch’esse non organizzate probabilisticamente.
    Il concetto fondamentale è che nel libro di Dick non accade mai ciò che ci si aspetta, e questo perchè nell’universo A l’evento A’ non ha spiegazione all’interno del sistema di riferimento A ma può essere compreso solo all’interno dell’Universo B, nel quale avverrà un altro evento B’ che sarà comprensibile … ecc. ecc.
    Spero che così la faccenda sia un filino più chiara. Risultato estetico: il lettore arranca ed è completamente alla mercè dello scrittore (ed è ben contento di esserlo, n.d.r.), non solo, ha la costante sensazione che il proprio consueto sistema di riferimento cognitivo faccia cilecca alla grande, lasciandolo in balia di un libro basato su leggi «altre» rispetto a quelle che rendono la vita quotidiana un insieme percepito come coerente.
    In altri tempi si sarebbe detto che Ubik è un viaggio, e preferisco ignorare l’esito di una lettura sotto l’effetto di una canna o due. Ma attenti, Ubik è un gran brutto viaggio, uno sguardo che si sovrappone a quello del lettore mutandone profondamente la percezione del mondo.
    In Ubik c’è una delle più potenti metafore del legame umano-oggetto, della reificazione umana, per dirlo con tutti i crismi e controcrismi; a Joe Chip accade di veder regredire gli oggetti che lo circondano: la sua cucina a gas diventa una cucina a carbone, la sua TV una radio di modello antiquato e via dicendo. Il suo universo percettivo – l’universo percettivo comune – è incapace di liberarsi dalla presenza degli oggetti, non solo: essi devono accompagnarlo come estensioni necessarie del sè, come unico sistema di riferimento possibile. 

    Ma cos’è Ubik?
    Tra i critici c’è chi lo identifica con Dio, essendo l’unico elemento invariabile della/e realtà del romanzo, ma a pensarci bene in ogni narrazione esiste un altro dato invariabile: l’autore. Credo che Dick abbia cercato, in modo avvertito o meno, di evocare nel testo – ogni libro si annuncia come un universo autosufficiente – l’arbitrio supremo dell’autore, ma cercando di porlo in rapporto al personaggio, giocando allo strano inaspettato gioco di divenire lui stesso un personaggio.
    Un esercizio simile aveva compiuto con La Svastica sul sole, vincolando la narrazione agli esagrammi dell’oracolo I-Ching.
    Ubik/Dick è una presenza costante: una pubblicità sciocca, un oracolo inquietante, una divinità oscura. Incarna il grado zero della percezione, un Dio dell’immondizia e dell’assurdo.
    Ho notato con piacere che la traduzione di questa edizione è a cura di Gianni Montanari, ossia la traduzione originale della prima edizione italiana, quella di «Galassia» del ’60. Si è fortunatamente persa per strada la generosa traduzione di Domenico Cammarota, tanto infelicemente barocca quanto inefficace.
    Mi hanno fatto notare che nella recensione non ho mai detto che Ubik mi piace.
    Beh, ammesso che a qualcuno interessi: «Ubik mi piace allo spasimo. È uno dei tre o quattro libri che hanno formato la mia visione del mondo e che mi accompagneranno per tutta la vita».
    Ma non penso possa fare lo stesso effetto a tutti quelli che lo leggeranno: con certi libri capita di incontrarsi al momento giusto, tutto lì.

    …


    Ancora su Ubik…
    È stato ristampato (da Fanucci che l’aveva ritradotto nel 2003) Ubik, testo miliare della produzione di Philip K. Dick. E naturalmente l’ho riletto, ed è stata la mia terza volta.
    A distanza di anni e di esperienze di vita, Ubik è ancora in grado di suggerirmi nuove emozioni, nuovi pensieri, di portarmi in un altrove differente da quelli precedenti.
    L’esperienza di questa sua continua, proteiforme attualità mi spinge a integrare con alcune riflessioni la recensione già pubblicata in queste pagine che presenta Ubik nel solo modo possibile: sottolineandone la complessa inafferrabilità, l’impossibilità di definirlo una volta per tutte, la sua natura narrativa e insieme metanarrativa.
    Due sono gli aspetti di Ubik che mi hanno colpito alla lettura più recente (e sospetto che non sarà l’ultima perché, come accade a ogni lettore, alcuni romanzi e autori non esauriscono mai la capacità di suggerire, di rivelare.).
    Innanzitutto Ubik è una metafora terribile e illuminante della vecchiaia. Joe Chip, intrappolato in un limbo residuale, sperimenta una realtà percettiva nella quale il mondo invecchia a vista d’occhio e ridiviene polvere e ogni oggetto, ogni merce, come un archetipo platonico rovesciato, regredisce a forme più antiche e meno perfette – le auto moderne si trasformano in modelli più vecchi, gli elettrodomestici in versioni più primitive – mentre il suo stesso corpo viene invaso progressivamente da una stanchezza infinita e insostenibile, dal gelo, dal degrado. Impossibile non pensare al nostro destino comune di viventi: il corpo tradisce, cede alla stanchezza, la mente perde progressivamente la presa sul mondo, una rassegnazione senza scampo ci spinge prima a cedere ad altri il controllo, poi a lasciarci andare, ad isolarci per scivolare via. Una metafora tanto più potente e necessaria in una società come la nostra, che considera la «vecchiaia» una parola impronunciabile, un evento da scongiurare anche a costo del ridicolo, e contemporaneamente si obbliga a conservare ogni parvenza di vita (nel nostro ricco e «civile» primo mondo, s’intende) fino all’accanimento terapeutico, senza interrogarsi sulla qualità di questa «vita» e sulla volontà individuale di chi viene conservato. Non posso fare a meno di pensare che chi invecchia sino a non essere più padrone dei propri gesti, del proprio corpo, della propria mente, sia un prigioniero ormai inconsapevole del limbo di semivita descritto da Dick. 

    Per chi come me ha una formazione scientifica, Ubik è anche una rappresentazione perfetta dell’entropia, la forza che contrasta l’ordine temporaneo della vita, la complessità momentanea e per alcuni miracolosa che dà forma e significato al mondo. L’entropia che rimescola le carte del Grande Gioco, riconducendo alla semplicità, al livello energetico minore. Che, come il Caos divino, chiude il cerchio e garantisce nuovi inizi.
    Infine, Ubik è una rappresentazione esatta della scrittura, che nasce ed è composta da un crogiolo di visioni impossibili ridurre all’ordine da spiegare in termini puramente razionali come – inutilmente e in parte oscuramente – si sforza di fare Carlo Pagetti nella sua postfazione. Dal Caos delle parole, che soltanto la testardaggine umana riesce a ordinare senza ridurre, a governare per qualche attimo, nascono le metafora e il senso del mondo.
    Questo ho imparato, la terza volta, da Ubik.

    Probabile ce ne sia anche una quarta…
    Buona traduzione di Paolo Prezzavento, decisamente più sobria e rispettosa, di quella, sempre Fanucci -1989, di Domenica Cammarota. 

    Philip K. Dick
    Ubik
    Fanucci 1998, 2003, 2007, 2011
    pp. 240, € 6,90
    trad. Paolo Prezzavento

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