Sollecitato da un amico, l’autore del romanzo pubblica una breve poesia sul bollettino dell’associazione venatoria giapponese. Una poesia dal registro elegiaco e malinconico, apparentemente del tutto inadatta alla rivista cui è destinatata. Vi è descritto un incontro «all’inizio dell’inverno», la solitudine del cacciatore e il senso di inadeguatezza del poeta incapace di «camminare come lui! Con quel passo così lento, calmo, freddo» nelle «strade affollate di notte». Una poesia che per primo l’autore trova «incongrua» nel contesto virile e salutista del bollettino, tanto da attendersi le rimostranze dei lettori. Rimostranze che non arrivano, perché «forse non era stata letta da nessuno» suppone il poeta. Arriva invece una lettera da parte di un certo Misugi Jôsuke. L’uomo dice di essere il cacciatore incontrato «all’inizio dell’inverno» e gli chiede il permesso di inviargli tre lettere destinate a essere distrutte, tre lettere che spiegano la sua solitudine. La prima delle lettere è della nipote di Jôsuke, Shokô. La seconda della moglie di Jôsuke, Midori. La terza della sua amante, Saiko, madre di Shokô e cugina di Midori. Tre lettere d’addio, confessioni o rivendicazioni di colpe senza più nessuna possibilità di riscatto o di perdono. Tre storie di donne legate a un luogo e a una famiglia «dove l’aria è talmente gelida da non riuscire a muovere nemmeno le ciglia», storie di tradimenti raccontate da voci necessariamente parziali e confuse che il racconto di Inoue non cerca di armonizzare. La giovane Shokô che si ritiene tradita dalla madre; Midori che lamenta il tradimento del marito e della cugina, della quale conosce la bellezza:
non riuscivo assolutamente a scacciare la sensazione di non potere in nessun modo competere con quella bellissima donna di cinque o sei anni più grande di me, la cugina Saiko
e infine Saiko stessa, madre di Shokô, ancora suo malgrado legata al tradimento del suo primo marito, che lei ha forse abbandonato con troppa precipitazione per consegnarsi a un amore senza futuro. Storie senza uscita e senza possibilità di riscatto – come è sempre vero per le sofferenze che nascono e germogliano nell’ambiente claustrofobico della famiglia. Storie cieche, consegnate per sempre a un ricordo o a un’immagine, cristallizzate in un’emozione che il tempo non può che rendere ancor più definitiva. La vita di Midori costruita intorno a una visione di un momento, quella di Saiko consacrata a una «malvagità» nata per gioco e divenuta malinconica perversione, claustrofobica e soffocante come tutte le passioni che vivono di ritagli di tempo, occasioni, attimi. Amori che invecchiano senza poter maturare perché non riescono a divenire vita condivisa. La comune morale familiare ha condannato Jôsuke, Midori e Saiko all’infelicità e alla solitudine. Ma forse non è stata soltanto la paura dello scandalo, del severo giudizio degli altri che li ha spinti a conservare un simulacro di rapporto costruito su una rappresentazione menzognera, ripetuta ogni giorno per tredici lunghi anni. La rarefatta, attentissima narrazione di Inoue spinge infatti il lettore a chiedersi quanto consapevole piacere della sofferenza spingesse Midori a convivere con Saiko e quest’ultima a consacrare la propria vita a un sentimento che lei per primo giudica «diabolico». La morte di Saiko spezza il mondo congelato, l’incantesimo di normalità. Restituisce i superstiti alle proprie solitudini.
Inoue Yasushi, poeta e critico d’arte ha pubblicato Il fucile da caccia, il suo primo romanzo, a quarantadue anni. Un’opera breve e perfetta, che chiama il lettore alla nuda comprensione, capace di evocare con rarefatta attenzione gli abissi che separano una vita dall’altra, senza lasciare alcuna possibilità di rifugiarsi in sterili morali precostituite. Un libro benefico, che lascia aperte le domande che riesce a suscitare.
Inoue Yasushi, Il fucile da caccia
Adelphi 2004, pp. 101, € 9,00, trad. G. Amitrano
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