Nelle antiche compagnie teatrali, era spesso istituzionalizzato il ruolo de ‘Il tiranno e altre parti infami’: il vilain, insomma, come in genere lo si chiamerà in riferimento al cinema. Un ruolo sostenuto peraltro dagli attori migliori, chiamati a offrire – anche quando un po’ marginali alla trama – un più sofisticato gioco di chiaroscuri interiori, un tessuto tortuoso di ambizioni e rovelli, una complessità psicologica di solito mancante al baldo eroe di turno. E da quella radice remota, col sentore polveroso di abiti di scena, discende per li rami la schiera dei cattivi del cinema e della televisione – non a caso retti spesso da navigati frequentatori degli stessi palcoscenici teatrali. Per l’Italia, basti pensare a quell’attore straordinario che è stato Adolfo Celi (1922-1986), capace di passare da raffinate performances di teatro al grande e al piccolo schermo: dal pessimo Emilio Largo di Agente 007 – Thunderball: Operazione tuono a papa Borgia, dal James Brooke di Sandokan al chirurgo nazista Emmenberger de Il sospetto tratto da Dürrenmatt, fino all’insidioso Don Mariano D’Agrò de L’amaro caso della baronessa di Carini e magari all’ineffabile ingegner Giovanni Nosferatu proprietario di una certa grande azienda torinese (e che, invece dei lupi, tiene attorno alla villa branchi vaganti di Fiat 500) in …hanno cambiato faccia di Corrado Farina, 1971. Un delicato, bellissimo documentario in sua memoria diretto dal figlio regista Leonardo, Adolfo Celi, un uomo per due culture, 2006, testimonia la curiosità e lo sconcerto del ragazzino di un tempo nel vedere un padre tanto affettuoso e gentile, nella vita quotidiana uomo di calorosa simpatia, finire spesso male al termine delle rappresentazioni. Col suo fisico imponente, il naso importante, ma soprattutto l’ironia che lo rende simpatico anche quando cattivissimo, e l’intensità meditabonda e vagamente malinconica del suo dominare la scena, Celi ha davvero lasciato un vuoto.
Per l’Italia cito però volentieri anche Warner Bentivegna (1931-2008), un altro vilain ideale, benché di tipo molto diverso dal prototipo di Celi: tanto quello recava la maschera anche fisica, statuaria, dell’uomo di potere pronto a conservarlo coi mezzi peggiori, Bentivegna coi tratti volpini e la sagoma sottile mostrava del potere un altro volto nel segno dell’insinuante, dell’ambiguo, del subdolo. Certo, come Celi anche Bentivegna non consumò la sua parabola d’attore interpretando vilain, e l’elenco delle sue apparizioni – soprattutto teatrali e televisive – è imponente: ma basta citarne un paio, l’odioso Paride del peplum La guerra di Troia, 1961, e il Lodrisio del Marco Visconti televisivo, 1975, per dare il senso e il sapore di una certa maschera. In particolare per Lodrisio, Bentivegna cesella il ruolo di consigliere traditore con straordinaria complessità psicologica: se l’iniziale fedeltà al cugino condottiero Marco (un immenso Raf Vallone) tradisce, in un machiavellismo tutto cerebrale, venature quasi omosessuali, al goffo innamoramento del leader che ne rivela un’inattesa fragilità, Lodrisio passa a un vortice di successivi voltafaccia da un signore all’altro di Milano. Memorabile la scena sugli spalti con Marco che lo affronta: ma compaiono alcuni armati che trafiggono il condottiero, e a quel punto Lodrisio si avvicina. “Non ci sarà mai un Marco Visconti signore di Milano” mormora con un tono indefinibile di ironia, sprezzo e vaga tristezza – per sibilare poco dopo ai soldati che trasportano il cadavere: “E che nessuno parli”, in chiave di omertà ma anche forse di un’ombra interiore. Una prova che con altro attore poteva corteggiare la retorica da feuilleton, e Bentivegna rende invece nel segno sottile di una nevrosi. Trasmesso la prima volta quand’ero ragazzino, lo sceneggiato mi aveva colpito tanto la fantasia da indurmi, una volta adulto, a scrivere all’ex-Lodrisio tutta la mia ammirazione: e conservo ancora il biglietto gentile con cui, a giro di posta e forse stupito, ringraziava.
La storia dei cattivi del teatro e dello schermo è naturalmente ricca di nomi degni di memoria. Emblematico resta per il mondo anglosassone quello di Basil Rathbone (1892-1967), il cereo gentiluomo britannico anima nera di tanti film di Hollywood – celebri gli eleganti e ginnici duelli alla spada con l’eroe di turno – ma insieme tra i massimi interpreti del personaggio di Sherlock Holmes lungo una serie di film e versioni radiofoniche. Un attore che d’altra parte, con le sue importanti scampagnate nell’horror, ricorda quell’osmosi tra vilain ed eroi del macabro che in fondo permette di riconoscerli come un’unica grande famiglia – donde l’arruolamento nell’horror di attori noti come cattivi dei film polizieschi o in costume, e viceversa.
Una famiglia nell’ambito della quale tutti conoscono per esempio Boris Karloff (1887-1969) e Bela Lugosi (1882-1956), interpreti dei grandi mostri della golden age Universal. Ma una famiglia fitta in realtà di innumerevoli altri visi che l’uomo – pardon, lo spettatore della strada spesso riconosce in questo o quel film senza però rammentarne i dati anagrafici. Sfogliamo dunque idealmente i repertori – dal testo brillante (e che meriterebbe aggiornamenti) di Fabio Giovannini e Antonio Tentori, I cattivi del cinema, Stampa Alternativa 1997, ai grandi studi sull’evoluzione dell’horror curati negli anni da Danilo Arona, Teo Mora, Daniela Catelli e fino magari all’ottimo Dizionario dei film horror di Rudy Salvagnini, uscito per Corte del Fontego con versione aggiornata e ampliata nel 2011.
Partiamo dal primissimo cinema, con quel Lon Chaney Sr., l’Uomo dai Mille Volti (1883-1930), che i più ricordano solo per The Phantom of the Opera – a fronte invece di una filmografia impressionante, in gran parte perduta – e col mostro-femmina Theda Bara (1885-1955), prima vamp e divoratrice di uomini. Ma pensiamo anche all’orizzonte macabro e teratologico dell’espressionismo, e per esempio all’attore e regista Paul Wegener (1874-1948) dagli sfuggenti tratti orientali, mattatore per esempio nel ciclo sul Golem; a Rudolf Klein-Rogge (1885-1955), altro specialista in figure non esattamente tranquillizzanti come il mad doctor di Metropolis; al misterioso Max Schreck (1879-1936) del Nosferatu di Murnau, oggetto di una mitopoiesi legata anche al possibile significato del suo nome, “Massimo Terrore”; o al grandissimo Conrad Veidt (1893-1943), che a differenza del collega antisemita Werner Krauss (1884-1959, pure noto come Uomo dai mille volti, e che condivise con lui i set di Das Cabinet des Dr. Caligari e Das Wachsfigurenkabinett prima di una brillante carriera sotto Hitler) si ribellò al nazismo e scelse l’esilio. E con tale spirito militante antinazista proprio Veidt interpreterà odiosi vilain dalla croce uncinata in film di lingua britannica come Casablanca.
Venendo poi al mondo angloamericano, si pensi a Edward Van Sloan (1882-1964) e a George Zucco (1886-1960), rispettivamente l’erudito buono e quello cattivo dell’horror degli anni Trenta – il primo – e Quaranta – il secondo; al sensibile Dwight Frye (1899-1943), passato alla memoria come pazzo vampirizzato o gobbo perverso dei film Universal; a Henry Daniell (1894-1963), il simil-Goebbels de Il grande dittatore di Chaplin, altro celebre vilain giunto anche all’horror, con la sua indimenticabile espressione ambigua; a Lionel Atwill (1885-1946), frequentatore di pellicole gotiche e poliziesche; a John Carradine (1906-1988), che dalle macedonie all-monsters degli anni Quaranta come Dracula passerà nei decenni successivi a infiniti horror di serie C, mantenendo però sempre una peculiare dignità; e ovviamente a Lon Chaney Jr. (1906-1973), specialista in mostri tristi. Per non parlare delle donne: la leggendaria Brigitte Helm (1906-1996) di Metropolis e Alraune, Elsa Lanchester (1902-1986), archetipica bride of Frankenstein, la vittima per antonomasia di mostri e bestie fantastiche Fay Wray (1907-2004) e un po’ tutta la schiera delle dark ladies. Come quella Joan Crawford (ca. 1904-1977) che con una collega in grado di tenerle testa, Bette Davis (1908-1989), animerà nel ’62 il raggelante What Ever Happened to Baby Jane? (Che fine ha fatto Baby Jane?).
Nel frattempo il cinema horror sta cambiando: ed è a questo punto che accanto ai vecchi mattatori sempre attivi come Karloff o Carradine, la scena viene conquistata da nuovi vilain. Per esempio Barbara Steele (1937, vivente), la regina del gotico italiano degli anni Sessanta, coi suoi occhi torbidi di fanciulla posseduta o strega reviviscente, e che ancora ritorna ogni tanto sugli schermi. O il titano Vincent Price (1911-1993), di cui ricorrerà nel prossimo ottobre il ventennale della morte: artista polivalente, curioso e coltissimo di matrice teatrale, dotato di una voce inconfondibile, lievemente nasale, intonata con l’eleganza del fine dicitore, arriva all’horror a piccoli passi, con sporadiche apparizioni a partire dal ’39 con Tower of London, e l’anno dopo, da protagonista, con The Invisible Man Returns (non a caso, nella chiusa del comico Abbott and Costello Meet Frankenstein, 1948, sua sarà la voce dell’Uomo Invisibile). Tre film degli anni Cinquanta consacrano la sua carriera nel macabro (House of Wax/La maschera di cera, 1953, The Fly/L’esperimento del dottor K, 1958, e House on Haunted Hill/La casa dei fantasmi, 1959); ma è il decennio successivo del fortunato sodalizio con il regista Roger Corman che vede il gigione Price impazzare tra grottesche e arabeschi di Poe. Certo, c’è ampio spazio di libertà in queste disinvolte rielaborazioni: il caso più estremo è quel divertentissimo The Raven, 1963, non stranamente intitolato in Italia I maghi del terrore, 1963, visto che con la struggente epopea del “Nevermore” poesco c’entra davvero poco. Ma va detto che Price, col suo raffinato istrionismo, riesce a sviluppare un aspetto genuino e non frequentemente riconosciuto nelle opere dell’Americano Maledetto, cioè proprio la dimensione teatrale sottesa a un certo uso della parola e degli ambienti, tra neri cortinaggi che sanno di sipario. Collezionista d’arte e raffinato gastronomo – le sue comparsate in show televisivi saranno celebri – Price è un intellettuale che sa far dialogare sul set stili diversi: come quando, proprio durante le riprese di The Raven, compone il dissidio tra Karloff, uso a seguire in termini rigorosi il copione, e Peter Lorre (1904-1964), altro transfugo della Germania nazificata e già celebre come serial killer in M di Fritz Lang, che invece straborda e improvvisa.
In effetti i produttori AIP della serie diretta da Corman si sono resi conto che quel gotico popolare a basso costo (nonostante il grande effetto di nebbiose case Usher graffiate da alberi scheletrici, trasudanti misteri e impestate di incubi) può essere un ottimo affare. Pochi anni prima infatti, dall’altro lato dell’Atlantico, la britannica Hammer ha ripreso il timone dell’horror – abbandonato in America nel corso degli anni Cinquanta a beneficio della fantascienza da Guerra Fredda – ricevendo idealmente il testimone della Universal di Karloff e Lugosi, e riappropriandosi di soggetti peculiarmente britannici. Una scelta all’epoca coraggiosa, cui l’arruolamento del divo teatrale e televisivo Peter Cushing (1913-1994) – “Cos’è la televisione?” “Peter Cushing con le manopole” suonava una battuta del tempo – e di un attore giovane e allampanato che non ha ancora fatto fortuna, Christopher Lee (1922), garantirà il successo – sia pure, va detto, grazie a un’intera squadra di grandi capacità, in cui spiccano il regista Terence Fisher e lo sceneggiatore Jimmy Sangster. All’istrionismo di Price si oppone qui la rigorosa misura britannica di Cushing & Lee, destinati a diventare da quel momento i poli ideali di un intero sistema mitico dove il primo è quasi invariabilmente lo scienziato e/o il fanatico, erudito e freddo portatore di demoni culturali, mentre il secondo è il mostro latore di una sovversione che insidia la società nelle sue componenti fondamentali – a partire dalla camera da letto. Dopo l’incontro in The Curse of Frankenstein (La maschera di Frankenstein), 1957, dove interpretano rispettivamente il barone-scienziato – il vero mostro della storia – e la Creatura, i due si scontreranno prima in Dracula (Dracula il vampiro), 1958, poi in The Mummy (La mummia), 1959, a parti pressoché immutate di studioso e nemico sovrannaturale.
Non è questa la sede per ripercorrere l’avventura Hammer e quella di altre case che anche in Inghilterra presto sorgeranno ad abbeverarsi alle fonti dell’horror – un nome per tutti, la Amicus, con i suoi baracconi di orrori che richiamano l’espressionismo e la poesia dei vecchi film Universal: ma è indubbio che questa rinascita del genere – a colori, con concessioni al sadismo e alla sensualità che, pur vittorianamente velate, turbano i critici d’epoca ed entusiasmano il pubblico – debba gran parte del suo impatto agli interpreti, primi fra tutti Cushing & Lee. Lo spessore umano e artistico di questi Dioscuri della notte – eclettici anche fuori dagli schermi con mille abilità e interessi – e il carisma di cui entrambi sono ricchi lasceranno un segno indelebile nella storia del cinema popolare (e non solo). In un sistema come quello gotico, sia pure in pellicole fortemente impregnate del manicheismo vittoriano di Fisher – ma appunto per questo ricche di ambiguità – la contrapposizione tra mostro e sua nemesi, tra il vilain (normalmente Lee) e il buono (normalmente Cushing), va sempre percepita a livello di quadro complessivo, dunque con tutto lo scarto e le equivocità implicite.
Gli anni di incontro tra vecchio gotico e Swinging London passano però veloci, e il decennio Settanta vede irrompere provocazioni diverse: per la Hammer, alla britannicissima ed educata Scream Queen degli anni Sessanta, Barbara Shelley (1932, vivente), subentra la più disinvolta Ingrid Pitt (1937-2010), rimasta negli annali dell’horror come Carmilla e Contess Dracula. Ma nel frattempo appaiono in produzioni internazionali le contesse nere di Jess Franco – prima fra tutte l’indimenticabile Soledad Miranda (1943-1970) e la fedele Lina Romay (1954-2012) – e gli altri suoi attori feticcio, come Howard Vernon (1914-1996), Paul Muller (1923, vivente) e quel Dennis Price (1915-1973) dal volto imperturbabilmente ambiguo, attivo in realtà in più generi sulla piazza internazionale (Hammer inclusa). Intanto, anche in Spagna si afferma un mattatore del gotico entro la pelliccia mannara di Paul Naschy (1934-2009); e comunque i repertori di vilain registrano un numero assai ampio di professionisti operanti anche nell’horror – si pensi al duro Jack Palance (1919-2006), a Klaus Kinski (1926-1991), al grande Herbert Lom (1917-2012). Ci sono poi Anton Diffring (1918-1989), specializzato in tedeschi cattivi; Robert Quarry (1925-2009), che raggiunge una certa notorietà nell’horror USA proprio degli anni Settanta; Reggie Nalder (1907-1991) dall’incredibile viso devastato, capace di passare dal Casanova di Fellini all’X-rated Dracula Sucks ai film di Walt Disney…
Cushing e Lee continuano ad apparire in film stuzzicanti come il pirotecnico dittico pop di Alan Gibson sul ritorno di Dracula in una Londra contemporanea, l’originale miscela ispanica di orrore e fantascienza Horror Express, 1972, il bellissimo The Creeping Flesh (Il terrore viene dalla pioggia), 1973 e il criticato ma godibile Nothing But the Night (Il cervello dei morti viventi), 1972. Anche in seguito all’evento-svolta della perdita dell’amatissima moglie Helen, Cushing sceglie di non reinventarsi ulteriormente e continua a muoversi soprattutto nell’horror popolare, mentre Lee si scatena in grandi produzioni internazionali dei generi più svariati, normalmente come carismatico cattivo. A sua volta Price, tra le diverse interpretazioni e comparsate del periodo può annoverare un nuovo personaggio che rimarrà nel suo mito, l’esilarante dottor Phibes oggetto di ben due film realizzati (1971-1972) e di una pletora di progetti rimasti ahimè tali.
Alle folli sperimentazioni del decennio che vede scomparire Hammer, Amicus e case minori e irrompere il ben diverso horror de L’esorcista subentrano quegli anni Ottanta che conosceranno una sostanziale eclissi del gotico. Ed è appunto di quell’epoca la malinconica fantasia House of the Long Shadows (La casa delle ombre lunghe) di Pete Walker, 1983, che riunisce per la prima e ultima volta con Cushing e Lee anche Price, John Carradine e Sheila Keith (1920-2004), attrice-feticcio del regista. Ombre lunghe come quelle della sera, sia per il contesto della vicenda (le avventure al crepuscolo di un giovane scrittore in un castello che credeva abbandonato), che per l’età avanzata delle guest star, che per la crisi stessa di un genere espressa nel film quasi in forma di metafora: e nei fatti Cushing, Lee & Price rappresenteranno l’ultima grande generazione di veri e propri divi dell’horror.
Certo non mancano oggi attori eccellenti con carismatiche prove da vilain inzuppate d’orrore: basti pensare ad Anthony Hopkins, che nel suo Hannibal incatenato e poi libero come la Creatura prometeica di Frankenstein, mad doctor ed esteta vampiresco ma anche brutale uomo-fiera divoratore dei suoi simili, compendia idealmente i vecchi mostri gotici – anzi quest’ombra finisce col cannibalizzare (appunto) un po’ tutte le interpretazioni dell’attore degli ultimi decenni, e in questo senso Hopkins va aggregato senz’altro alla categoria. Mentre, tra i colleghi più giovani griffati da grandi ruoli di vilain magari con scampagnate nell’horror brillano Murray Abraham (1939), Geoffrey Rush (1951), Richard Roxburgh (1962), Gary Oldman (1958)… Eppure l’impatto sull’immaginario di Cushing, Lee (ancora oggi attivissimo) & Price è legato alla magia di un cinema diverso, molto più popolare ed economico, e alla fascinazione di un sistema mitico che le loro abilità d’interpreti avevano saputo sostenere e incarnare: una carica simbolica di cui per esempio l’arruolamento di Cushing e Lee alla saga di Star Wars e del secondo a quella di The Lord of the Rings (nel frattempo Cushing è morto, ma sarebbe stato uno straordinario Gandalf) suona clamorosa conferma. Nel loro ruolo anzi di medium tra sogni di un pubblico popolarissimo e fonti di una cultura alta – alla quale tutti e tre attingono per interessi personali, esperienze pregresse e dialoghi aperti con esponenti della letteratura e dell’arte, nell’ambito di esistenze di straordinaria ricchezza – questi patriarchi del Fantastico si fanno ideali portavoce di tutti i loro colleghi.
Ricordarli, oltre che bello per noi che li abbiamo amati, diviene dunque un modo per testimoniare la qualità del Fantastico che difendiamo, contro tutte le banalizzazioni e gli svilimenti; una buona occasione per ripensare insieme a una tradizione artistica di interpreti della complessità lungo tutta la storia del cinema, e al ruolo appunto di cerniera tra cultura “alta” e “bassa” che interpreti come Cushing, Lee & Price hanno rappresentato. E d’altra parte, per la specializzazione dei tre in quell’horror che figura tra i generi più immediatamente “critici” e provocatori verso ogni tipo di melassa sociale, tale memoria apre a considerazioni d’interesse anche più vasto…
Cushing compiva gli anni il 26 maggio, e nel presente 2013 festeggerebbe il secolo; mentre, per un caso curioso di calendario, il 27 maggio nascevano – ovviamente in anni diversi – Price e Lee. L’idea di ricordare tali anniversari abbinati in un’unica Festa delle Ombre Lunghe, come appunto da quest’anno si è scelto di fare attraverso momenti di riflessione, articoli web e la circolazione di un piccolo logo-memoria di libero uso, sembra una buona formula di condivisione. Oltre a un motivo in più per rivederci qualcuno dei loro film, e magari, in scherzoso omaggio ai tre e ai loro colleghi, questo video dei Deep Purple.
Buona Festa delle Ombre Lunghe.
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