Staccarsi da questo libro è difficile come tornare da un viaggio di quelli che prendono i sensi, il cuore e il cervello. La città cui Pamuk dedica il suo corposo canto d’amore è un fantasma che può assumere le sembianze di qualsiasi città il lettore porti nell’angolo della sua memoria dedicato alla nostalgia. E’ costruita con la solidissima materia dei sogni e del rimpianto, ritratta in centinaia di fotografie e incisioni in bianco e nero, minuziosamente nominata nel repertorio di quartieri e di vie, percorsa a piedi, in macchina e in battello, auscultata e indagata nelle pieghe più fuorimano, eppure non è reale. Questa Istanbul bellissima e malinconica è Orhan Pamuk, che generosamente ci permette di condividere con lui il sentimento di una vita che si forma in un luogo universale.
Le parole chiave sono tristezza e felicità. Tristezza è sentirsi a metà del guado, testimoni del fallimento del grande impero ottomano di cui si perde la memoria come le sue rovine che si sgretolano per incuria, e incapaci di realizzare fino in fondo l’occidentalizzazione sognata da Atatürk. Pamuk, che in Neve rappresenta con agghiacciante efficacia le contraddizioni della Turchia contemporanea, in questo libro tiene l’occhio costantemente rivolto al passato, intrecciando i ricordi dell’infanzia (è nato a Istanbul nel 1952 e continua a viverci) e dell’adolescenza con i giudizi dei viaggiatori occidentali, come Nerval e Gauthier, le incisioni settecentesche del tedesco Melling, l’autorappresentazione degli scrittori cittadini «tristi e solitari», le meravigliose fotografie di Ara Güler e quelle scattate dal padre. Da bambino assiste alle liti dei genitori e alla progressiva decadenza della famiglia. Da ragazzo percorre ossessivamente le solitarie stradine lastricate, «tristi e buie», dei sobborghi, dove ancora sopravvivevano povere case di legno man mano sostituite dai palazzi di cemento. Corre a guardare gli incendi delle magnifiche ville signorili in legno, scoloriti e misteriosi relitti del passato imperiale, trascorre giornate a contare le navi sul Bosforo e ascoltarne i malinconici fischi nella notte. Legge sui giornali le notizie degli automobilisti che si inabissano nelle acque profonde dello stretto dopo avere lanciato un’ultima occhiata al cielo. Beve e scherza con gli amici per tacitare la tristezza. E la felicità? Quella sta nell’illusione, nel ricordo, nel sogno. Nella pittura fino al momento in cui il giovane Orhan riesce a dire alla madre (e sono le parole conclusive del libro): «Diventerò scrittore, io».
Non c’è colore locale, vagheggiamento, compiacimento, neppure indulgenza in questo ritratto della giovinezza di un autore e della decrepitezza di una città. Non è una guida, non si perde in notizie storiche e descrizioni di monumenti. C’è la forza trasfigurante di una scrittura limpida e precisa, capace di evocare una vita in una frase. C’è un elenco nel decimo capitolo, intitolato Tristezza, che riassume in modo meraviglioso un mondo, tutto quello che appartiene alla città e ne costituisce corpo e spirito. C’è la fiducia nella parola e nella memoria perché il passato non si perda e diventi il terreno fertile da cui può nascere un libro straordinario.
Orhan Pamuk
Istanbul
Einaudi Supercoralli, 2006
pp. 288, € 18,50
trad. di S. Gezgin
idem, Einaudi super ET, € 13,00
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