di Massimo Citi
Esiste un lungo e ricchissimo rapporto tra letteratura americana e cultura ebraica. Bastano alcuni nomi – Saul Bellow, Philip Roth, Bernard Malamud – per giungere a definire una sorta di identificazione della costa orientale degli Usa con la sua cultura ebraica, i suoi confitti, le sue particolarità e contraddizioni. Che, del pari, esista un rapporto controverso tra la visione e il comportamento «ebraico ortodosso» molti autori l’hanno sottolineato in diverse occasioni e in non pochi casi ne hanno fatto lo spunto e una sorta di «fissazione» della propria narrativa.
Per Shalom Auslander (nome che ha tutta l’apparenza di uno pseudonimo, dal momento che, tradotto, significa «Pace [in ebraico] – Straniero [in tedesco e probabilmente in yiddish]») il rapporto con la religione ortodossa ebraica è a tutti gli effetti il centro della propria ispirazione.
Sono stato sulla scacchiera di Dio abbastanza a lungo da sapere che ogni mossa in avanti, ogni piccola notizia – Successo! Matrimonio! Figlio! – è soltanto un «trucco divino», una finta, un falso, una trappola. Sembra che io mi stia facendo strada sulla scacchiera, ma in men che non si dica Dio dà scacco matto e la società che mi aveva assunto fallisce, la moglie muore, il figlio neonato soffoca nel sonno.
Persuaso di avere un conto aperto fin dall’infanzia con una divinità di questo genere Shalom conduce una vita complicata e contradditoria nella quale la dottrina ebraica gioca – in positivo come in negativo – un ruolo centrale.
Martedì mi toccai. Inoltre spezzai il pane senza prima lavarmi solennemente le mani, e quella sera, prima di addormentarmi, mi sedetti sul bordo del letto e recitai con cura «merda», «cazzo» e «culo» una dozzina di volte ciascuno».
Si ribella, ovviamente, rimanendo perennemente in attesa delle conseguenze terribili dei suoi gesti. Che tardano a venire, nonostante tutto, o si presentano in forme che non hanno molto di riconducibile al peccato del quale sarebbero una risposta.
Shalom vive senza pace. Fuma, si fa cannoni da record, beve, mangia cibi non kosher, non rispetta i genitori ma crescendo si sente inutilmente, furiosamente inadeguato.
Penso a cose disgustose mentre vado in ufficio. Penso a cose disgustose mentre sono in ufficio. Penso a cose disgustose mentre torno a casa dall’ufficio. Vado alla deriva in un mare di culi. Culi sul marciapiede davanti a me, culi che mi strusciano contro in metropolitana, che mi sfiorano negli ascensori, che mi passano davanti nei corridoi.
Un lungo soggiorno in Israele non modifica il modo di giudicare la propria vita e stabilirne priorità e precedenze. Si fa nuovamente ebreo ortodosso e osservante ma le sanguinose vicende di Israele e le cattive condizioni di salute dei nonni lo fanno ridiventare un Satan, ovvero la vittima di un’inclinazione malvagia.
Ritornato in patria trova lavoro e moglie ma attende come sempre la vendetta divina, questa volta a carico della moglie o del figlio che sta per arrivare.
«Ti hanno proprio fatto il lavaggio del cervello», gli dice la moglie. Shalom annuisce e prende un altro appuntamento con il neurologo.
Niente happy ending, in questa storia.
Una situazione di parziale, incerto equilibrio destinata a replicarsi all’infinito senza modifiche sostanziali. «Sia maledetto Woody Allen» esclama Shalom, negando recisamente ogni legame con la buffa tradizione familista ebraica. Nella logica divina non esiste via d’uscita. Hai e avrai sempre un peccato del quale inutilmente vorrai liberarti e la presenza del «peccato» è inestirpabile, profondamente connaturata con la nostra forma umana.
Shalom Auslander gioca con questa caratteristica profondamente ebraica, quella di un Dio raccontato nella Bibbia come iroso, meschino, vendicativo, dispettoso, rabbioso e impaziente, ma sia lui che il suo personaggio sono costretti ad ammettere la loro sconfitta. Il Dio degli ebrei – non certo casualmente lo stesso di cristani e musulmani – semplicemente non ammette la presenza attiva di un interlocutore. Davanti a Dio, come davanti a un padre impaziente e stizzoso, siamo nulla.
Shalom Auslander
Il lamento del prepuzio
Guanda, 2009
pp. 272, € 15,50
Trad. Elettra Caporello