Un libro agile che dà piacere a ogni parola, perché ogni parola è studiata e limata da una scrittura priva di qualsiasi sbavatura o compiacimento. Non si tratta di un romanzo ma della ricostruzione di un mondo perduto, la Torino (e dintorni) degli anni che stanno tra il ‘45 e gli anni ’60 del secolo scorso. L’autrice è figlia di un pittore, Riccardo Chicco, molto conosciuto a Torino sia per l’eccellenza delle sue opere (una è in copertina) che per essere stato un vero personaggio: nella parole della figlia fondamentalmente era un esteta e un pittore, accessoriamente un amante, sempre un seduttore. Marginalmente anche insegnante di storia dell’arte al liceo classico, dove io sono stata sua allieva. È naturale che la sua figura campeggi in queste pagine, ma in effetti non è l’unica né la principale. Tutta la famiglia della protagonista, una Elisabetta prima bambina poi adolescente, è dipinta con tratti nettissimi e precisi, e senza sconti. Sono pagine divertenti e divertite, abbastanza perfide. C’è la bella madre, piena di carattere ma del tutto priva di senso materno, c’è la zia Eva che mantiene la linea vivendo di whisky e sigarette, la tremenda zia Titina (la figura più esilarante e spaventosa) dedita alle opere di bene, gli zii, i vicini di casa, le figure di una Torino che si lascia alle spalle la guerra. È la Torino del Sollazzo Gastrico, della Turris Eburnea, della Tampa Lirica, dell’Escargot, nomi che forse non dicono molto ai più ma fanno sobbalzare chi quei tempi li ha vissuti o ne ha sentito parlare da zii e fratelli maggiori, l’altra faccia della Torino deprimente, grigio ostaggio della Fiat, in cui si aggirano personaggi trasgressivi e anticonformisti, come appunto Riccardo Chicco o Carol Rama e altri presentati dalle semplici iniziali. Torino è sempre stata assai più complessa e divertente di quel che il luogo comune voleva. Come supremamente divertenti sono gli episodi e i personaggi di questo libro, in apparenza svagato collage di ricordi, in realtà monumento alla distanza che permette di vedere un’epoca passata per quel che è, fuori dal compiacimento, dalla nostalgia. Non “come eravamo” ma “come erano”, bizzarri, ridicoli, cattivi, unici, umani, comunque nostri, e per fortuna che noi siamo diversi. Almeno fino a quando una nipote dalla penna intelligente, perfida e spiritosa come quella di Elisabetta Chicco Vitzizzai non deciderà, in un lontano futuro, di raccontarci.
La parsimonia era una delle esecrabili virtù di famiglia. […] L’indole sospettosa e l’eccessiva precisione erano un’altra caratteristica di famiglia. […] Zia Luda sembrava una sedia liberty. Di quelle sedie allampanate, smunte, scivolate nei braccioli e nello schienale. […] Le due figlie di zia Luda, Mati e Matè, sembravano due poltrone imbottite, solide e goffe. […] La Cicci faceva un mestiere ormai in declino, la mantenuta. […] Zia Titina aveva una vera passione per le deformità e le collezionava si può dire con gusto ed esaltazione feticistici. Viene freddo al pensiero e insieme si scoppia a ridere.
Elisabetta Chicco Vitzizzai, Il più bel vizio è la vita,
Instar Libri, 201, pp. 141, € 13,50
Una vera sorpresa questo veloce e densissimo romanzo di Elisabetta Chicco Vitzizzai che affronta con levità e ironia argomenti di grande presa emotiva e pregnanza storica. A sorprendere non è certo la bellezza (conosco le opere di questa autrice da tempo, e so che cosa aspettarmi) né l’argomento, ma l’originalità con cui è affrontato. Daniel Avigdor, ventenne ebreo torinese, in un pomeriggio di primavera del 1953 viene incaricato di andare in farmacia a procurare una medicina indispensabile per il padre agonizzante. Daniel ha alle spalle esperienze pesantissime, una madre uscita di casa nel 1943 e mai più ricomparsa, un padre severo, anni di paura, fughe, privazioni estreme in condizioni intollerabili. Però ha anche vent’anni: e la primavera riempie l’aria di polline e luci. Così comincia un vagabondaggio quasi involontario per le vie della città, con il naso per aria e l’imperativo di trovare una farmacia un po’ accantonato in un angolo della mente. Pare di vederlo seguire le uste che man mano il capriccio, o il destino, gli propone, in un percorso dalla topografia e dalla toponomastica di una precisione sbalorditiva. Il suo pomeriggio si dipana alternando parti in prima persona e altre in terza, ricordi che ci rivelano il suo passato e impressioni legate al suo presente, incontri, ricordi di grande sensualità, svagatezze e dolori profondi, finché sul far della sera si imbatte nella tentazione definitiva, quella che il Talmud condanna: “Meglio camminare dietro a un leone che dietro a una donna”. Ma Daniel, tutto preso da quell’ondeggiare rotondo, non solo segue la bella Ada ma trova anche il coraggio di abbordarla. È una donna ma è anche un deus ex machina: in quell’incontro, nel quale getta il denaro per comprare la medicina per il padre, Daniel trova tutto quello che andava cercando da tempo, intimità, scambio, verità e coraggio. Improvvisa e folgorante la verità, amara ma rasserenante come ogni prova severa. Il destino gli presenta la soluzione dei misteri della sua infanzia, ma non dirada la nebbia che li avvolge. Il ritorno dal padre lo rende definitivamente adulto dandogli la consapevolezza che non può assolvere né condannare, ogni colpa porta in sé anche una parte di virtù, l’amore ha tante facce e non è mai innocente.
La lezione finale di questo romanzo di formazione che si dipana con ammirevole equilibrio tra la freschezza svagata dei vent’anni e l’oscura, definitiva angoscia delle persecuzioni contro gli ebrei, è forse che bisogna lasciarsi alle spalle i genitori per crescere. I loro dolori, le loro colpe, e anche i loro bisogni. Il gesto di Daniel, che usa i soldi delle medicine per offrire un frappè a Ada, è una metafora che mi incanta. Come si potrebbe esprimere meglio la grazia, oltre che oltre che l’ineluttabilità, della vita che si libera del passato per correre verso se stessa?
Elisabetta Chicco Vitzizzai, Dio ride
Cairo Publishing, 2008, pp. 147, € 13,00
cortesemente dal blog di Consolata Lanza: Anaconda Anoressica
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