Snow Crash, A.C. Clarke Award 1994, è uno dei romanzi «storici» di quel filone della SF a suo tempo definito «Cyberpunk» e quindi, a pieno diritto, contaminato, aggressivo, veloce, delirante e scritto con uno stile sottilmente complice, talvolta sgangherato, immaginifico, paradossale.
Raccontare la vicenda – tanto complessa da risultare a tratti oscura – è abbastanza inutile. Credo possa servire di più un veloce quadro del mondo nel quale il romanzo è ambientato. Si tratta degli States, com’è ovvio, ma divenuti irriconoscibili, frantumati in uno spolverio di minuscoli stati, enclaves, franchise, alla totale bancarotta economica e nei quali qualunque funzione statale, compresa la difesa, è privatizzata o in vendita al miglior offerente. La Mafia è un agente economico e politico legale, garante – sui propri territori – di pace, ordine e tranquillità mentre ciò che resta del governo federale è divenuto un covo di burocrati paranoici che accumulano pratiche sul nulla, passando il tempo a sottoporre a test i propri dipendenti per verificarne la fedeltà.
Esistono ministati fondati su un particolare credo religioso, altri nei quali nostalgici segregazionisti abitano ville in stile Via col Vento e dove è vietato l’ingresso a chi non è puro WASP, enclave di proprietà di Nuova Hong Kong o di Narcolombia e frammenti di territorio senza padroni, concessionari o franchise e quindi destinati al disordine, alla fame e alla delinquenza. Accanto all’universo reale esiste un universo virtuale – il Metaverso – un cosmo cibernetico condiviso dove «le città sono decine di volte più grandi della più grande città del mondo reale e in cui il campo del piacere e dell’esperienza si trova a essere limitato dalla sola immaginazione».
La struttura del romanzo è quella di un thriller ad intreccio, costruito su un’ipotesi fanta-archeologico-linguistica non esattamente limpidissima ma comunque abbastanza folle da riuscire a reggerne il peso. In 412 pagine si fatica a trovarne due o tre tirate via o inutili e il riferimento a Vineland di Thomas Pynchon che Rudy Rucker inserì nell’ultima di copertina della prima edizione italiana continua ad apparire decisamente azzeccata. Di Pynchon, Stephenson ha la leggerezza stralunata, il gusto per il paradosso, l’ironia sorniona e la carica satirica ad alto potenziale. I suoi USA sono probabili in maniera allegramente allarmante e mostrano fedelmente gli esiti di una deregulation spinta oltre ogni limite ragionevole.
È pur vero che l’amore di Stephenson verso gli hacker può ormai muovere al sorriso, ma c’è poco compiacimento e poche illusioni in proposito. Stephenson chiude la parabola dei Neuromanti volgendola in farsa, in una scatenata sarabanda di cyberdroghe e telepredicatori criminali.
Neal Stephenson
Snow Crash
Rizzoli
€ 11,60
trad. P. Bertante
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