Chi negli anni ’60 – ’70 abbia militato in qualche organizzazione della sinistra, si sarà interrogato, almeno qualche volta, sul modo di interpretare il mondo degli avversari politici, in particolare di coloro che storicamente rappresentavano la fazione più violenta e pericolosa delle forze politiche avverse, cioé i fascisti. Una volta scartata l’interpretazione più ovvia e insoddisfacente, ovvero quella di concepirli semplicemente come sicofanti al soldo del capitale, e del pari scartata l’ipotesi che essi fossero dei rozzi, brutali minus habentes, affetti da qualche tara lombrosiana, non restava che chiedersi – con una punta di disagio – che cosa spingesse esseri umani non troppo dissimili da noi a militare dall’altra parte, quali valori riuscissero costoro ad astrarre dall’Olocausto e da frasi come: «il nostro Onore si chiama Fedeltà».
Motivi non troppo diversi hanno probabilmente spinto Oe a tentare di raccontare dall’interno la vita di un giovane militante dell’estrema destra giapponese, un diciassettenne che da una vaga simpatia per il comunismo scivola verso le posizioni via via più estreme della destra. Il romanzo è diviso in due lunghe sezioni, la prima intitolata Seventeen, la seconda Morte di un giovane militante. Quest’ultima, comparsa un’unica volta sulle pagine della rivista Bungakukai, non ha più trovato un editore né in Giappone né all’estero a causa delle minacce agli eventuali editori ed all’autore stesso da parte dei gruppi dell’estrema destra giapponese.
Ma che cos’ha di tanto dissacrante il romanzo? Il protagonista è un adolescente confuso e frustrato che conosce, grazie ad un amico, il capo di un piccolo gruppo di estrema destra. Questi lo prende sul serio, lo lusinga, lo spinge a prendersi crescenti responsabilità. E il giovane, che finalmente assume nel suo piccolo mondo una caratteristica ben precisa («… ora invece di vedermi dentro vedono la divisa della destra e chissà perché sono più rispettosi…») finisce per puntare ogni sua possibilità, ogni sua risorsa nel suo credo politico, rinunciando ad ogni compromesso, seguendo un proprio percorso mistico e delirante che lo condurrà all’omicidio di un leader della sinistra e successivamente al suicidio. Il risvolto di copertina parla di sarcasmo sferzante ma anche di umana compassione ed è miracoloso come Oe sia riuscito a far convivere nella stessa opera emozioni tanto dissonanti. E anche il lettore, coinvolto in questo romanzo di formazione rovesciato, si trova ben presto a provare comprensione per il protagonista, per la sua coerenza suicida, nella quale il disprezzo per se stesso forma il combustibile della sua passione. Il giovane seventeen prima di incontrare la destra e il culto dell’Imperatore era dedito alla masturbazione, un’abitudine che considerava con vergogna, come il sintomo disgustoso di un corpo inaccettabile nella sua grossolana materialità, un corpo in trasformazione che viveva con orrore: « … mi vergogno da morire che io corpo+anima così consista, ecco quanto basta per vergognarmi a morte… ». E proprio questo riferimento alla masturbazione pare essere l’elemento che ha maggiormente scatenato le ire dei gruppi di estrema destra giapponese. Il fatto che nel romanzo i leader di quella stessa destra siano ritratti come un branco di confusi megalomani, piccoli sciacalli corrotti o reduci dalla guerra che non riescono a reinserirsi nella vita quotidiana, non ha reso certo loro più digeribile il testo, come è probabile siano parsi intollerabili i frequenti riferimenti ai finanziamenti occulti da parte del partito di governo. Il fatto è che i fascisti giapponesi, come del resto quelli di ogni altra parte del mondo, hanno bisogno di vestire i panni di eroi omofili, immacolati e incorruttibili, impermeabili alle passioni, tanto più saldi e più forti quando ogni elemento cospira contro il loro sogno. In questo senso l’ansia di martirio, il senso di potere nascosto nella grandezza della sconfitta – una delle grandi costanti ideologiche della cultura nipponica – non illuminano soltanto la destra giapponese, ma anche molta dell’ideologia fascista di questo secolo. « … Non esistevano soltanto i campi di concentramento nazisti, ma anche quelli comunisti, infinitamente peggiori … » afferma il leader del piccolo gruppo nazionalista al quale aderisce il protagonista. E questo micidiale mix di ignoranza, frustrazione, cultura tradizionale maldigerita, confusione, impossibilità di integrarsi in una società fortemente selettiva costituisce la base della scelta non solo del protagonista ma anche di tanti altri come lui. La narrativa può essere anche discorso? Certo, purché le caratteristiche profondamente umane di chi vi viene ritratto siano rispettate. Oe, autore politicamente impegnato nella sinistra giapponese, ha dimostrato come si possa rendere una testimonianza intensa, prima umana che politica, senza cadere nel facile errore di cercare la complicità politica del lettore. A concludere il testo, ottimamente curato da Cristiana Ceci, titolare della collana di letteratura giapponese, e attentamente tradotto da Michela Morresi, il discorso di ringraziamento tenuto da Oe in occasione della consegna del Premio Nobel, un importante contributo alla comprensione della cultura giapponese contemporanea.
Oe Kenzaburo, Il Figlio dell’Imperatore
Marsilio 1997 (ed. orig. 1961), pp. 172, € 12,91 (fuori catalogo, reperibile presso www.scribd.com)
Trad. M. Morresi
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