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    La fine è nota di Geoffrey Holiday Hall

    • di Silvia Treves
    • Agosto 29, 2020 a 5:29 pm

    Bayard Paulton, vicepresidente di un grande magazzino di New York, giungendo davanti al palazzo in cui abita evita per un pelo di essere travolto da un corpo caduto proprio da una finestra del suo appartamento. Secondo la moglie di Bayard, il morto – un certo Roy Kearney, sconosciuto a entrambi i coniugi – ha chiesto di entrare in casa per incontrare Paulton e, dopo alcuni minuti trascorsi camminando concitatamente per il salotto, ha spalancato la finestra e si è lanciato giù.

    Il tenente Wilson cerca di fare luce sul suicidio e di scoprire di più su Kearney ma chiude il caso dopo che Jessie Dermond, sessantenne proprietaria di una tavola calda nel Montana, viene a reclamare il cadavere spiegando che l’uomo aveva lavorato da lei per alcuni mesi.

    La mente di Bayard, però, è catturata dal mistero: perché Kearney ha affermato che Paulton era l’unico in grado di aiutarlo? Perché non ha atteso di parlargli? Il resto della storia è il resoconto di una indagine personale condotta da Paulton, sempre più convinto che la responsabilità del suicidio di Roy sia, in qualche modo, anche sua: se solo fosse rientrato puntuale, quella sera!

    È proprio questo che mi preoccupa – insisté Paulton. – Non l’avevo mai visto, ed è venuto a chiedermi aiuto. Forse c’è ancora qualcosa che posso fare per lui. Qualcosa che lui voleva, qualcosa per cui aveva bisogno di aiuto. Può darsi che non sia ancora troppo tardi.

    Buona parte del libro è un affascinante insieme di dialoghi tra l’uomo, Jessie e altre persone che hanno conosciuto Roy in vari momenti della sua vita. E queste persone, oltre che di Roy e del loro rapporto con lui, parlano di altri sconosciuti che hanno fatto parte della sua breve esistenza, persone di una provincia che al protagonista ricorda molto quella del Nebraska da cui proviene e dove non è mai più tornato dopo essersi arruolato.

    Perché Jessie Dermond era tanto simile alle donne che lui aveva conosciuto in quel lontano passato e perché Summer Crossing, nel Montana, era tanto simile ai villaggi del Nebraska.

    Piano piano, Bayard incontra vite lontane dalla sua anni luce, ma che forse sarebbero toccate a lui, se una sorte benevola ma meritata non gli avesse permesso una vita agiata: soldati reduci, come lui, dalla Prima guerra mondiale ma non altrettanto fortunati, giovani caduti nella Seconda guerra mondiale, dove lui ha servito con il grado di tenente colonnello, e mogli di due generazioni che hanno vissuto, talvolta invano, la lunga attesa del loro ritorno, un fragile disadattato di grande ingegno, lavoratori di una cittadina promettente che poi i tempi nuovi si lasciano indietro e gente povera pronta a tutto pur di arraffare qualcosa e cambiare la propria sorte. Da queste persone Bayard impara molto su Roy, ma non ancora a sufficienza per comprendere le ragioni del suo gesto e il motivo per il quale si è rivolto a lui.

    A nostra volta, noi lettori impariamo molto su Bayard e sulla sua quieta e «normale» rettitudine, qualcosa che, come pensa lo stesso Paulton, lo accomuna a quella gente:

    E Paulton, con un brivido sottile, si rese conto di essere comune e semplice come i Klinko.

    A colpire il lettore sono piccoli tocchi che rendono questi sconosciuti personaggi memorabili, concentrati mai banali di umanità:

    Jessie Desmond si sedette e cominciò a parlare con frasi slegate, caotiche, rigide e goffe, come lei.

    Perché Pincus era nato per essere un genio. Non aveva altra capacità, altro talento; era specializzato per quello e per nient’altro.

    … identificò la casa prima ancora di arrivarvi. Era la costruzione più pulita e nuova della strada e sembrava ignara delle miserie che la circondavano, Assomigliava alla bianca e leggera carta da lettera usata da Helen Marr…

    Di La fine è nota (The End is Known, 1949) si è parlato molto anche recentemente, sia perché Cristina Comencini nel 1992 ha diretto un film omonimo, molto liberamente ispirato al romanzo (1993) sia, soprattutto, perché il romanzo, pubblicato per la prima volta in Italia da Mondadori nei «gialli» con il titolo Morte alla finestra, intercettò, nel 1952, l’attenzione di Leonardo Sciascia, che lo ritenne «di qualità diversa, di livello più alto»

    Il letterato lo apprezzò talmente da dichiarare in seguito:

    … avevo l’impressione che, pur dedicandosi alla letteratura di consumo, quel giovane scrittore […] avesse fatto i suoi latinucci sugli altri maggiori, e su Faulkner specialmente.

    Decenni dopo, Sciascia mostrò il romanzo a Elvira Sellerio che lo pubblicò nel 1990.

    Ciò che mi spinge a riproporne la lettura è proprio la capacità di Hall di evocare, nel suo modo asciutto e pietoso, un mondo periferico probabilmente non estinto, una realtà dove la storia può ripetersi, e le comunità essere ingiustamente lasciate indietro, come ce ne sono in ogni Paese, non soltanto nel profondo degli Stati Uniti. Grazie a La fine è nota, per esempio, mi sono chiesta: «chissà chi avrebbero scelto nel 2016 come Presidente degli Stati Uniti gli abitanti delle cittadine del Montana e del Nebrasca nelle quali Geoffrey Holiday Hall ci ha accompagnato?» È a questo che serve la narrativa, a farsi delle domande, a vedere delle connessioni.

    Purtroppo uno scrittore così promettente da suggerire nomi grandi della letteratura americana come Faulkner, Steinbeck e Cain e da evocare autori noir come Cornell Woolrich scrisse soltanto un altro romanzo, una spy story ambientata a Vienna: The Watcher at the Door (1954), pubblicata da Sellerio nel 1992.

    La fine è nota è un romanzo irrinunciabile, perfino come thriller, talmente ben scritto e costruito, da superare le gabbie del genere e divenire semplicemente buona narrativa, capace di restituire a chi legge la complessità del mondo. Come ricorda Eric Ambler, che di thriller e storie di spionaggio sicuramente se ne intendeva,

    «Il romanzo è sovvertitore per vocazione, il romanziere è una spia in territorio nemico. Non c’è dunque da stupirsi se la sua parabola finale è il racconto con dentro una spia dichiarata e certificata, che come il picaro originario vede la società dal basso e con rancore»

    La fine è nota è così, dipinge il mondo guardandolo con rancore, amarezza e quel tanto di sorpresa da far dimenticare al lettore che non basta conoscere il finale per svelare un mistero.

    Tradotto in francese con il titolo L’homme de nulle part, The end is Known vinse nel 1953 Le Grand prix de littérature policière per il migliore poliziesco in lingua non francese.

    L’opera non ha nulla a che fare né con la serie televisiva americana Nowhere Man, né con il film L’homme del nulle part (1937, ispirato a Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello).

    L’unica immagine disponibile di Geoffrey Holiday Hall

    da http://mysteryfile.com/blog/?p=1337 by Posted by Steve

    Il titolo è preso da Shakespeare, dal Julius Caesar, in cui Bruto dice (vedi exergo)

    Geoffrey Holiday Hall, La fine è nota, Sellerio «La memoria» 1990, pp. 254, € 8,00, Trad. Simona Modica

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    Tag: IstantaneaPoliziescorecensione

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