
Gli dèi e i miti sono ormai temi molto gettonati da serie TV e da autori weird e più in generale di fantastico (uno per tutti Neil Gaiman con la serie American Gods e il recente Norse mithology che nel 2020 diventerà un fumetto). Così propongo la lettura di questo suggestivo volume, costruito in modo magistrale da A. S. Byatt, un testo con molteplici piani di lettura, che non è un romanzo anche se narra storie, e che ha la bizzarria del weird e la capacità del fantastico di parlare del passato – o del futuro – per dire del presente.
Nel 1999 l’editore scozzese indipendente Canongate Books varò il progetto Canongate Myth Series, invitando scrittori di vari paesi (tra loro Victor Pelevin, David Grossman. Margaret Atwood, Su Tong, Natsuo Kirino, Philip Pullman…) a riscrivere antichi miti di varie culture. Byatt scelse come soggetto la fine ultima: la leggenda norrena di Ragnarök.
C’era una bambina magra, che aveva tre anni quando scoppiò la guerra mondiale.
Così Byatt inizia il libro che mescola la storia della bimba (che ha molto di autobiografico), i miti norreni (narrati in «molte lingue – islandese, tedesco e altre») e la complessa realtà quotidiana nella quale vive insieme a tutti noi. Una sfida rischiosa anche per una scrittrice del suo calibro, dalla quale esce bene, riuscendo a coinvolgere i lettori.
Con questa tripla costruzione l’autrice gioca sul contrasto e sull’intreccio tra i temi: ci regala la propria esperienza personale di piccola sfollata da Londra nel «paradiso ordinario della campagna inglese» che attraversa ogni mattina per andare a scuola, imparando i nomi dei fiori che la madre le insegna perché ama le parole:
«c’erano vecce e caglio zolfino, nontiscordardime e veronica digitale, viperina azzurra, cerfoglio selvatico, belladonna fatale…»
e c’era il Dandelion, dent de lion, (dente di leone, il tarassaco). Dandelion wine, tra parentesi, è il titolo originale di L’estate incanta di Ray Bradbury.
È la madre ad avvicinare la piccola ai miti norreni regalandole un suo vecchio testo: Asgard e gli dèi, di Wilhelm Wägner (1880), un mondo oscuro, violento e tetro che fa da contraltare al cristianesimo fervente e pieno di letizia che mirava a tenere su di morale adulti e bambini, rassicurandoli sulla possibilità di ritrovare i loro parenti soldati, almeno in paradiso.
«La storia cristiana era un altro mito dello stesso genere della storia sulla natura delle cose, ma meno interessante ed eccitante»,
pensa la bimba. E attraverso il mondo dei miti norreni, pieno di emozioni intense, sete di vendetta, errori e fragilità, che deve giungere a una fine che non saprà evitare, riesce a comprendere e accettare la fragilità degli adulti, che stanno perdendo il mondo che hanno conosciuto e temono per la vita dei loro cari.

Gli dèi conoscevano fin nei particolari come sarebbe giunta la loro fine, l’Edda di Snorri Snorluson, scritta in Islandese nel 13° secolo, ce ne racconta l’inizio e la fine inevitabile: il loro mondo scivola inesorabilmente verso Il Ragnarök. Eppure
«Erano tutti pietrificati, con lo sguardo fisso, come conigli davanti alle donnole, incapaci di pensare a evitarlo».
E, diversamente, dal dio cristiano resuscitato, che tornerà a giudicarci alla fine del mondo,
«qui anche gli dèi venivano giudicati e considerati manchevoli. […] Gli dèi di Asgard venivano puniti perché loro e il loro mondo erano cattivi».
Il modo di affrontare il mito scelto da Byatt è molto diverso da quello di altri scrittori che hanno partecipato al progetto Canongate Myth Series: mentre Grossman e Atwood, ad esempio, scavano per trovare l’umanità che ci accomuna ai loro personaggi, i protagonisti del Ragnarök non possono diventare più umani, come dice la scrittrice*:
«Anche da piccola io ero consapevole che c’era differenza tra leggere miti e favole, o storie su persone reali, o storie su persone reali immaginarie. Dèi, demoni e altri attori dei miti non hanno personalità o personaggi come le persone nei romanzi. […] Hanno attributi – Hera e Frigg sono essenzialmente gelose, Thor è violento, Marte è guerriero, Baldur è bello e gentile, Diana di Efeso è fertile e verginale».
Ma quando la scrittrice ha deciso di confrontarsi con il mito norreno, ha dovuto, in sostanza non solo raccontarlo, ma di scriverlo, facendo un lavoro erto e orgoglioso sul linguaggio: ha usato un registro lieve per la storia della bimba magra, uno quasi divinatorio per il terribile finale, e si è rivelata un’affabulatrice capace di avvincere i lettori con il sortilegio delle parole:
«E c’erano pesci enormi con i corpi taglienti, che riflettevano la luce, ombre in agguato nell’ombra, con fianchi palpitanti che cambiavano colore sotto la luce che fendeva l’acqua e ne era filtrata […] L’albero del mare si ergeva in un mondo di vegetazione subacquea, dalla quercia marina ai viluppi di laminariacee, il millefoglie acquatico, l’impigliaremi, la cintura di mare, il grembiule del diavolo e l’acetabularia. […] C’erano squali affusolati di varietà diverse, volpe, mako, smeriglio, galeo, squali leopardo, squali bruni, squali grigi e squali notturni, i predatori e i predati».
La voce di Byatt a tratti diventa un canto, una nenia. Una sfida che i due traduttori hanno onorato con grande perizia.

Tra le pagine più belle quelle dedicate al proteiforme Loki, il trisker, e alla sua progenie: il lupo Fenhir che ha ereditato dal padre la cinica e penetrante ironia, l’austera Hell, regina dell’oltretomba, e la immane serpe Jörmungandr. Eccoli qui, i quattro cattivi, ben noti agli dèi norreni che, tuttavia non si peritano di provocarli e ferirli.
Jörmungandr, racconta Byatt,
«Era una bestia sensuale: le piaceva il solletico dell’aria, annusava il profumo delle foreste di pini, della brughiera, del deserto torrido, il salino del mare».
E Loki, con lucida attitudine da scienziato, va sulla spiaggia a studiare i marosi, progettando di mappare la linea costiera. Cerca la figlia e si trasforma in orca, per pescare insieme a lei. Oppure i due giocano a nascondino:
«Prendimi –, diceva lui, e svaniva, lasciando che l’ombra del suo mantello si dissolvesse sullo sfondo del cielo azzurro. Era difficile trovarlo quando diventava uno sgombro insignificante, isolato dagli altri».
Questa natura abbagliante, evocata con parole sontuose, è il terzo tema del libro, una potente visione lo lega al timore ambientalista che pervade il nostro presente. L’incoscienza degli dèi norreni, il loro agitarsi violento ma passivo di fronte al disastro, divengono chiara metafora del nostro comportamento autodistruttivo attuale. La conclusione agghiacciante del Ragnarök è un monito per noi. E lo è anche, nel suo modo quotidiano, la conclusione della storia della bimba, il ricongiungimento della famiglia e la necessità di vivere in un mondo di pace…
Interessante l’appendice finale di Byatt: “Pensieri sui miti”.
* A. S. Byatt, Ragnarök: the doom of the gods
https://www.theguardian.com/books/2011/aug/05/as-byatt-ragnarok-myth
A.S. Byatt, Ragnarök: la fine degli dèi, Einaudi 2013 (ed. orig. 2011), pp. 147, € 17,50, trad Anna Nadotti e Fausto Galuzzi,

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