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    L’ultimo amante di Hachiko di Banana Yoshimoto

    • di Massimo Citi
    • Dicembre 17, 2019 a 8:35 pm

    Uno dei temi preferiti da Yoshimoto – appariva già in Amrita – è quello della percezione extrasensoriale, ossia la possibilità di un contatto empatico con i defunti o il manifestarsi di forme di sensibilità esasperate quali la prescienza, o brevi, intensi momenti di telepatia. L’abilità di Yoshimoto consiste nel giocare questi «azzardi» narrativi in modo perfettamente coerente alla vicenda narrata. In questo il costante uso della forma di narrazione più parziale – il racconto in prima persona – ha un ruolo essenziale. Il lettore è così disponibile a eventi e percorsi in altre circostanze inaccettabili, sedotto dalla leggerezza sognante dello stile e attirato dal costante riferimento dell’autrice alla robusta tradizione romantica nipponica.

    Nell’opera di Yoshimoto (come in quella di Murakami Haruki) si è così pronti ad accettare sinistri presagi e inspiegabili – ma quotidiane – percezioni ESP. La cornice scelta dall’autrice, d’altro canto, è in genere studiatamente ordinaria, i suoi personaggi non posseggono doti particolari, al di là di un elevato grado di sensibilità, e quanto raccontano ha i modi e la verosimiglianza di un diario adolescenziale.

    Tutto questo discorso nasce in realtà da una delusione. L’ultima amante di Hachiko, Feltrinelli editore, traduzione di A.G. Gerevini, abbandonando il suo abituale traduttore, Amitrano, sembra possedere tutte le prerogative richieste da un testo firmato da Yoshimoto, ma nonostante questo fatica ad appassionare il lettore, probabilmente in qualche caso giungendo, in definitiva, a non riuscire a interessarlo davvero.

    Banana Yoshimoto

    Si tratta di un racconto lungo, narrato in prima persona dalla nipote di una saggia, anziana signora che un gruppo di fanatici ha deciso di riconoscere, dopo la sua morte, come guida spirituale. La nipote, che pure ha stima per la nonna, non riesce a prendere sul serio la passione spirituale che anima i credenti e la sua stessa madre e decide, invece, di concedersi interamente alla passione per Hachi, un giovane dal destino già segnato, di passaggio in Giappone e destinato a tornare in Tibet. Il testo è la cronaca della passione di Mao, la protagonista, e della rovina della comunità religiosa sorta sul ricordo della nonna.

    L’approccio di Yoshimoto al tema è decisamente un po’ troppo parziale: a lei interessa unicamente il racconto dell’amore di Mao per Hachi, un amore nato da una profezia della nonna e destinato a terminare dopo un tempo dato, ma fanatici e religione incombono e Yoshimoto è costretta a liberarsene, molto goffamente bisogna ammettere, con un finale affrettato. D’altro canto la scelta a priori di raccontare un amore destinato a terminare in un tempo dato risulta un po’ artificiosa per il lettore.

    Già a metà della lettura si ha la netta sensazione di un testo nato senza particolare passione, un esercizio di sopravvivenza commerciale del quale, probabilmente, sentiva la necessità unicamente l’editore giapponese di Yoshimoto. Il testo ha comunque avuto un certo successo in Italia (in Giappone e anche qui da noi) e il suo prezzo molto contenuto è stato probabilmente la chiave per l’acquisto.

    Banana Yoshimoto, L’ultima amante di Hachiko, Feltrinelli Universale economica, pp. 112, € 7,00, trad. A.G.Gerevini

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    Tag: Banana Yoshimotogiapponenarrativa giapponeserecensione

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