Una recensione su un saggio di economia politica del 1997: apparentemente ripubblicarlo apparirebbe come un’inutile autocitazione. Il fatto è che, a rileggerne la presentazione, appare come un testo spaventosamente attuale, ricco di osservazioni puntualmente divenute realtà entro pochi anni. A questo punto non possiamo che invitarvi a rileggere al recensione e – possibilmente – il testo e a meditare sulle capacità di Marco Revelli, vicine allo sciamanesimo, di esaminare con attenzione lo stato reale delle cose, traendone osservazioni e commenti di tutto rilievo. Oltre che profetici. [MC]
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Gli alti tassi di disoccupazione sono divenuti un dato fisiologico delle società industriali avanzate del mondo. In Europa, certo, ma anche negli U. S. A., dove circolano statistiche decisamente sportive, basate sul sondaggio piuttosto che sulla rilevazione capillare dei dati e nelle quali vengono omologati come “lavoro” anche attività ultraprecarie o effimere (ma vitali per la sopravvivenza) che si susseguono affannose, tanto che si è coniata l’espressione: «capitalism’s squirrel cage» ovvero: «la gabbia dello scoiattolo del capitalismo» nella quale «…ognuno deve correre sempre più forte per restare nello stesso posto». Il Welfare State, ovvero quell’insieme di garanzie sociali minime ora irrise e vituperate, si va sfasciando grazie alla deterritorializzazione («Le più recenti inchieste ci dicono che già oggi le principali imprese transnazionali sono in grado di sottrarsi in misura pressoché totale al potere statale in materia fiscale») e alla delocalizzazione (esternalizzazione) verso le aree del pianeta a più basso costo di produzione. E insieme ad esso scompare il modello industriale fordista, basato
«… su uno sviluppo [tendenzialmente] illimitato, con illimitate disponibilità di forza-lavoro, illimitata disponibilità di materie prime, illimitata disponibilità di consumo» sostituito dal modello della lean production (produzione snella) «…volta a escludere sistematicamente dall’universo della fabbrica ogni fattore inessenziale, a espungere ogni voce di costo sovrabbondante o inessenziale e a introdurre un principio di economicità in ogni comparto produttivo.»
Vien da sé che il personale rappresenta la «voce di costo sovrabbondante» per eccellenza, tanto che ormai la parola d’ordine di qualunque manager, anche il più scalcinato è: «ridurre il personale». E così la produzione, magari «drogata» da grandi campagne di rottamazione promosse da – realtà romanzesca – governi di centro-sinistra, viene sempre di più delegata all’esterno, in modo da poter garantire nel contempo la massima ricattabilità del subfornitore di semilavorati e scorte a costo zero o quasi.
«...miriadi di fabbrichette si tengono a galla con le briciole gettate loro dai colossi internazionali come Honda, Kawasaki e Yamaha. (…) Gli uomini al lavoro in questi stabilimenti sono le pedine del famoso sistema giapponese di ricambi su ordinazione: un espediente che permette alle grandi industrie di operare tagli, riducendo lo stoccaggio. (…) L’onere di curare l’inventario viene così a pesare sulle piccole imprese. (…) É un lavoro a rischio: il fornitore deve essere in grado di procurare all’istante le parti richieste, altrimenti sarà scaricato a favore di un altro. (…) In caso di recessione sarà lui il più duramente colpito, e sarà il suo magazzino, non quello delle ditte multimiliardarie, a restare invenduto».
Questa citazione, tratta da Baburu, i figli della grande bolla, di Karl Taro Greenfeld, Instar Libri 1995 (ed. orig. 1994), chiarisce meglio di ogni lunga spiegazione le implicazioni della lean production.
La chiave del problema, come sottolinea il libro di Revelli, sta proprio nel concetto di «illimitato», ovvero nella semplice constatazione che «…non è più possibile risparmiare crescendo». La realtà è che si cerca di «crescere dimagrendo», scaricando sulla società civile i costi della ritrovata competitività.
Una delle conseguenze più inquietanti della deterritorializzazione è proprio la perdita di coesione sociale, della quale sono apologeti legaioli e italoforzuti. Sono stati il Tatcherismo e il Reaganismo degli anni ’80 a reinventare le dottrine liberali, nella forma di un liberismo selvaggio e protervo, cioé una versione economica del darwinismo sociale, nato per legittimare da un punto di vista ideologico e culturale lo sforzo di impoverire i meno abbienti e arricchire i già ricchi. Infatti, coerentemente, nei paesi dell’occidente sviluppato i poveri (parola desueta ma tornata d’attualità) e i disoccupati/sottoccupati sono in costante aumento, mentre la punta della piramide sociale si fa sempre più alta e sottile. Sinistre coincidenze: viene aperto in questi giorni in Gran Bretagna il primo carcere di massima sicurezza per minorenni, contemporaneamente esce un articolo sui maggiori quotidiani che riporta i dati di un’équipe scientifica americana, secondo i quali: «…Non esiste nessuna correlazione tra la tendenza al crimine e un’infanzia disagiata». Giusto, ben venga quindi la sedia elettrica, magari preventiva.
Nel libro di Revelli il rapporto tra crimine, perdita di coesione sociale e delocalizzazione degli investimenti appare molto evidente, esattamente come emerge con evidenza l’assottigliarsi del confine tra economia legale e illegale, ma la percezione sociale di questo legame non è affatto chiara. E gli sconfitti, i dropouts della produzione snella, gli immigrati dal terzo e dal quarto mondo appaiono così i veri nemici di una piccola borghesia esposta e marginalizzata, che non si rassegna, alza la voce e sogna un mondo fuori dal tempo, a propria immagine e somiglianza:
«la “secessione” territoriale è qui intesa [dal leghismo settentrionale] come liberazione dai residui vincoli solidaristici costituiti entro il vecchio spazio dello Stato-nazione. Da ogni vincolo solidaristico, da ogni responsabilità sociale».
Di fronte a queste tendenze come reagisce la sinistra socialdemocratica europea?
« …I margini del riformismo sono ridotti al minimo (…) [La socialdemocrazia] e il ceto politico che l’ha guidata fino ad ora può tentare di rifondare una propria legittimazione (…) su una nuova capacità di raccordo tra decisioni e politiche delle grandi agenzie del capitale globalizzato (F M I, Banca Mondiale, Unione Europea) e “sistema paese”».
Secondo Revelli esiste ormai un solo modo di essere socialdemocratici nell’epoca della crisi della socialdemocrazia: «…far funzionare “al contrario” la macchina statale, come strumento di redistribuzione dell’indigenza anziché della ricchezza».
É nel nome di questo stato delle cose che nascono mistificazioni di grande impatto emotivo, come l’affermazione che il diritto alla pensione significa automaticamente disoccupazione per i giovani. In realtà in questa Europa ogni risorsa, ogni struttura sociale debbono essere messe al servizio della competitività globale, la “fabbrica diffusa” invade l’ormai inesistente tempo libero e la pratica del volontariato viene chiamata a rimpiazzare lo Stato assente.
Dopo un’analisi esauriente dello stato delle cose articolata in tre sezioni, al termine della quale è difficile sentirsi di buon umore, viene la quarta parte del libro: «Verso un nuovo paradigma: l’economia solidale», che presenta riflessioni e proposte. Autorganizzazione, reciprocità, solidarietà, sono queste le sole, preziose carte che può giocare una sinistra europea nuova, all’altezza della sfida.
«…tutto il Novecento può essere letto come un sistematico, violento processo di riduzione e annientamento dei reticoli di “economia solidale” (…) E tuttavia, nonostante ciò, quell’esperienza e quella memoria d’un socialismo delle origini, né di Stato né di mercato, con i loro corollari di mutualismo, cooperativismo, solidarismo attivo, non sono state del tutto sradicate dall’universo sociale europeo».
Ma non si tratta del tentativo patetico di contrapporre al Capitale Globale la forma associazione/Cooperativa/società di mutua assistenza, quanto, piuttoso,
«...di un vero e proprio “salto di paradigma” (…) Una forma collettiva dell’agire direttamente orientata all’agire solidale, capace quindi di compensare le strutturali tendenze dell’economico alla disgregazione sociale (alla dissoluzione del legame sociale)».

Marco Revelli
Se è vero che capire il problema è già per metà averlo risolto, allora leggere questo libro è una necessità, soprattutto per quanti, come chi scrive, hanno giudicato poco chiara e insoddisfacente la politica dell’attuale governo e delle forze di sinistra che lo sostengono, senza tuttavia trovare un filo che unisse tutti i mugugni e le considerazioni deprimenti in una chiara presa di posizione. Un libro chiaro, puntuale e terribile, davvero da non perdere.
Marco Revelli, La Sinistra Sociale, Bollati Borighieri, Temi, 1997, pp. 236, euro 12,39
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