Luce Virtuale di William Gibson è stato pubblicato negli USA nel 1993 è ambientato nella S.Francisco del 2005. È un romanzo molto ambizioso ma anche stranamente freddo, consunto. L’autore di Neuromante si è decisamente affinato, scrivendo (quasi) come Pynchon o Vonnegut, ma il vero problema è che pare aver esaurito le cose davvero importanti da dire.
Il punto di partenza della vicenda è un piccolo furto, quasi un dispetto, compiuto da Chevette Washington, una messaggera (una specie di pony express per consegne di materiali fisici in un ambiente dominato degli scambi virtuali) ai danni di un pezzo grosso di una multinazionale. Ciò che la ragazza ha sottratto è un paio di occhiali a Luce Virtuale, che, agendo direttamente sul nervo ottico di chi li utilizza, permettono di vedere ciò che verrà costruito in una data zona in un dato momento. La ragazza vive sul ponte sulla baia di San Francisco che, danneggiato da un terremoto, è diventato la patria di tutti i senzatetto, gli spostati, gli immigrati clandestini della zona.
Gibson schiera tutti i suoi personaggi, presenta ambienti più o meno suggestivi, recupera gli Hacker di Neuromante, enumera programmi televisivi Trash, poliziotti russi carogne, bizzarre sette religiose, sado-maso benefici (e qui l’influsso di Vineland di Pynchon è fortissimo) ma non riesce a provocare un vero brivido né una sana inquietudine, né a suggerire un mondo «altro», disumano ed efficacissimo come in Neuromante, e sembra soprattutto tirare a finire costruendo una storiella poliziesca non eccessivamente attenta (o a essere cattivi, un po’ sciatta ), con un finale deludente e faticoso. Risultato un testo eccessivamente progettato e arido come il cuore di un robot.
William Gibson, Luce virtuale, primo della Trilogia del Ponte: [Luce virtuale, Aidoru, American Acropolis], prima edizione in Interno Giallo [1994], seconda edizione in Mondadori Urania 1285 [1996], terza edizione in Mondadori Oscar, pp. 334 [2008], edizione disponibile soltanto in forma di usato, trad. D. Zinoni
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