Scaraventato da un incidente giù da un viadotto, Robert Maitland – architetto trentacinquenne rampante che intrattiene scettici rapporti con moglie, amante, figlio, amici – si ritrova confinato in una piccola isola delimitata dall’incrocio di più autostrade, sulle quali il traffico scorre intenso ad ogni ora del giorno e della notte. È uno spazio sconosciuto, nascosto tra i piloni di cemento; l’erba ricopre auto arrugginite, i resti di un cinema e un vecchio cimitero. Ferito, ignorato dagli automobilisti, Maitland esplora come un naufrago il suo nuovo ambiente che è elusivo, ingannevole, solitario come un’isola in pieno oceano, costretto per sopravvivere ad accettare una logica differente e ad intraprendere un viaggio interiore.
Ballard dimostra un vero genio nel delineare paesaggi urbani esasperati e indifferenti, un’umanità alienata, un po’ repellente, un po’ vittima di meccanismi che non sa più controllare. Meno cerebrale di Crash (che a me comunque è piaciuto moltissimo), L’isola di cemento ne condivide l’atmosfera e il progressivo allontanarsi del protagonista dalla realtà per immergersi, pacificato, senza più punti di riferimento, in un mondo alieno che è il nostro mondo quotidiano.
James Ballard, L’Isola di cemento, Feltrinelli Universale Economica 2013 [ed. or. 1974], pp. 155, € 7,50, trad. M. Bocchiola
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