Diarista impareggiabile e irrequieto viatore di itinerari centroasiatici sempre meno praticabili – se non decisamente interdetti – al di qua e al di là dell’Amu-Darya, il mai troppo lodato Robert Byron ha lasciato un’altra e assai significativa traccia del suo Grand Tour d’Oriente in questo duplice «giornale di viaggio», in Italia forse non ancora noto come meriterebbe, e come meriterebbe, d’altra parte, anche la restante opera del nostro: opera di erudito «dilettante» non meno che di poeta, e seminata di improvvise illuminazioni, e ancora insapidita da una punta – da più di una, in verità – di acre, snobistico umorismo, nella miglior tradizione waughiana.
First Russia, then Tibet si rivela essere un dittico necessario – e anzi tale da giungere a influenzare con una sosta di ossessionata volontà di simmetria anche l’edizione italiana, che inspiegabilmente preferisce un titolo più «suggestivo» (?) all’originale, declassato per l’occasione al rango di sottotitolo – a tinte perlopiù fortemente contrastive, talora inaspettatamente complementari: dalle piatte distese di quell’estrema plaga dell’Asia continentale che continuiamo a chiamare convenzionalmente Russia alle vertigini – sensibili e concettuali a un tempo – del «deserto verticale» himalayano; dagli austeri, ferrigni trionfi del bolscevismo ieratico agli almeno altrettanto sacrali (e impenetrabili) riti di cortesia tibetani. Abbiamo evocato il colore non a caso. Il libro ne ridonda piacevolmente, e non soltanto nell’accezione consueta di verve descrittiva di ambientazioni d’interesse turistico-etnografico: si veda, ad esempio, il capitolo dedicato all’antica pittura russa, con quell’indimenticabile elogio della Trinità rubleviana, sublime icona in cui «il malva rossastro e l’ardesia chiaro, il verde foglia che spicca sul bianco e sul grigioverde sembrano includere, a un esame più attento di questo miracolo cromatico, tutti i colori presenti nello spettro del grigioperla» (p. 96); o quello in cui, pregustando le ineffabili soavità di un panorama vergine, allorché – svanito per sempre il blu di Prussia dell’Himalaya (ex-) britannica – l’aria prende a brillare di una luminosità liquida, preludio alla fulminea rivelazione di una terra in cui «la luce ha fini più decisi e meno immediati che la banale funzione di fornire calore e illuminare» (p. 169), l’autore redime la scontata protesta di ammirazione per lo spettacolo naturale in una ricca vibrazione sentimentale, di grave e partecipe intensità, quella stessa che riecheggia in ariose descrizioni di tramonti e simili meteore contemplati dal Tetto del Mondo, la specola più privilegiata che possa immaginarsi:
tutt’intorno erano schierate le montagne viola con le loro fenditure, e le valli di un terso color zaffiro lucente. La terra si perdeva all’orizzonte, caracollava fra le colline, si arrestava esitante, balzava giù e si appiattiva, per rialzarsi come un’onda di marea […] scompariva e tornava a essere visibile in una catena più distante, giusto in tempo per coprire la nebulosa di fuoco che si era appena posata, mentre le ultime lingue di fiamma indugiavano all’orizzonte ridestando le stelle. Il muro rosso imbrunì, si fece cremisi, sospeso da una vetta all’altra, opera di immani giganti (p. 202).
Quanto esula da tale prospettiva monumentale – e dall’écriture artiste ad essa connaturata – si condensa in scorci minori, notazioni di carattere, spassosi bozzetti (disavventure carovaniere, laboriose libagioni di chang, delizie enigmatiche di banchetti suntuosamente offerti ai pellegrini da ospitali ottimati locali) marinati nell’ironia agrodolce che, pur in vista di Gyantse, o vagheggiando Lhasa favolosa, proibita e remota di là dalla cortina dei suoi monti, è in grado di temperare con moderata sprezzatura ogni iperbole, ogni troppo corrivo stupore in un’atmosfera di blanda, umanissima simpatia.
L’unico punctum dolens per il lettore italiano è provveduto dalla quantità – davvero ragguardevole, purtroppo – di refusi che, coniugati più di rado a travisamenti (o a vere e proprie incomprensioni) del testo inglese, sono capaci di produrre mostri come il «suino di Ga[r]darene» – sic per Gadarene swine, il porco indiavolato cui viene per similitudine paragonata la bizzosa cavalcatura montana (un pony, a tutti gli effetti) del Byron – di p. 183, ove il molto godibile riferimento scritturale a Mt 8, 28-32, redolente d’accademismo vecchiotto e pedanteria da divinity school, pare essere passato, evidentemente, del tutto inosservato.
Robert Byron, Gente di pianura, dèi della montagna – Prima la Russia, poi il Tibet, a cura di Salvatore Marano, «I libri della Biblioteca del Vascello» 47, Roma, Robin Edizioni, 1993, rist. 2001, pp. 241, € 11,36.
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