Leggere Le meraviglie del Duemila è stato comunque un piacere, anche se leggendo è finita con l’emergere quella che è stata definita «la visione piccolo-borghese di un italiano di fine ‘800». Un’affermazione in qualche punto condivisibile, certo, ma sottilmente riduttiva. Ciò che mi ha colpito di più, in realtà, è stata la sottile amarezza con la quale Salgari racconta il mondo di domani, un mondo divenuto insostenibile per eventuali visitatori dal passato perché inquinato da un eccessivo uso di energia elettrica, tanto da rendere «elettrici» anche i suoi abitanti. A colpire è anche la mancanza dell’enfasi trionfalistica – tipica del buon vecchio Jules Verne – nell’enumerare i progressi tecnologici e il sottile sentore di perfida burla che sembra animare il racconto di ogni novità tecnologica, senza contare la semplicità a tratti brutale – gli anarchici deportati ai poli, per fare un esempio – con la quale vengono affrontati i problemi relativi all’ordine pubblico e l’inevitabile resistenza umana ai cambiamenti imposti dal ritmo troppo rapido di mutamento. Se a questo aggiungiamo la sostanziale scomparsa del mondo animale, obbligato a tentare di sopravvivere in un piccolo arcipelago, nasce la sensazione non passeggera che in realtà Salgari abbia scelto – più o meno consapevolmente – di raccontare una distopia, utilizzando il vocabolario di un ottimista a oltranza.
Esemplare, da questo punto di vista, la chiusa del romanzo, con i due protagonisti, esuli dal passato, ricoverati in un manicomio e giudicati malati inguaribili in quanto non adattati alla vita «elettrica» condotta dai loro consimili. Un curioso tipo di umorismo, viene da pensare, che mi ha ricordato taluni racconti di P.K.Dick con finali beffardamente crudeli, sul’esempio di Modello 2, un vecchio racconto dove non solo l’umanità viene distrutta dai robot ma i robot stessi hanno iniziato una guerra tra loro…
Emilio Salgari, Le meraviglie del Duemila, Transeuropa 2011, pp. XV+221, ill. di C. Chiostri
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