Daniel Pennac
Grazie
(Feltrinelli)
Che dire di questo monologo teatrale di Pennac? A volerlo legger «bene» è un divertissement: l’autore dimostra di esser in grado di reggere un gioco basato su un assunto esile (la difficoltà del ringraziare) e di fare un esercizio di stile. A volerlo leggere «male» è solo un esercizio di stile, perché la vena di Pennac si è ormai inaridita.
A sostegno di questa seconda ipotesi deporrebbe la precedente opera del nostro: Ecco la storia (Feltrinelli, 2003), che era un «pasticciato» pastiche – ci si perdoni il bisticcio lessicale – che tentava di strizzar l’occhio a Calvino e all’Oulipo, senza riuscir ad avvicinarsi neppure un poco alle vette raggiunte dall’uno e dall’altro, e che – pur avendolo letto tutto (la tentazione di chiuderlo a pagina 20 era stata molto forte) – mi rifiutai a suo tempo di recensire.
La traduzione di Yasmina Melaouah è frizzante come sempre, ma siamo ben lontani dall’inventiva e dalla fantasia che avevano contraddistinto i primi romanzi del ciclo Malaussène.
È un po’ come se ciò che là era gioco rutilante di invenzione letteraria, fuoco d’artificio di creatività, «son et lumière» di immaginazione si fosse qui ridotto a un pallido riflesso, fosse diventato stereotipo perché questo è ciò che il lettore medio si aspetta da Pennac.
Spero fortemente (ho amato e adorato e idolatrato il Pennac di Come un romanzo, dei primi Maluassène e delle favole per bambini) di dovermi rimangiare questo giudizio negativo o di aver affrontato l’operetta nel momento sbagliato (anche se l’ho letta due volte a distanza di un mese); ai posteri…
Per ora il mio giudizio sintetico è: Boh?!?