Oggi Gregory Benford, con due romanzi: Il divoratore di Mondi, Mondadori Urania ed. or. 2000 e traduzione di Vittorio Curtoni e Un oscuro infinito, Fanucci Solaria ed. or. 1983, trad. di Alessandra Mazzoccoli.
Diciassette anni di distanza tra due romanzi profondamente differenti pur se firmati dallo stesso autore. La cronaca di un attacco alla terra nel primo caso, un topos narrativo che non invecchia mai in sf, e un romanzo di formazione ambientato tra i ghiacci di Ganimede nel secondo.
Il divoratore di mondi, nome che definisce un buco nero intelligente in circolazione nella galassia da sette miliardi di anni, si potrebbe definire un ottimo esempio di occasione sprecata. Benford, infatti, dopo aver ipotizzato un’inedita e sorprendente forma di vita intelligente, dopo averla fornita di alcune caratteristiche curiose e affascinanti, come la passione di collezionare menti aliene (aliene per lui) portandole via con sé a fargli compagnia nei suoi vagabondaggi, impiega pagine e pagine a raccontare storie d’amore più o meno felici come un Updike ipertecnologico, tirando via sul personaggio di gran lunga più interessante: il buco nero.
Ma non è questa l’unica delusione che il romanzo riserva al lettore.
Uno dei protagonisti del libro, Channing, un’ex- astronauta ora in forza a uno dei principali centri astronomici mondiali, malata di cancro all’ultimo stadio, viene interamente registrata su supporto magnetico e inviata nello spazio ad affrontare l’alieno. Un tema drammatico, non trovate? Una situazione curiosa e ricca di interessanti implicazioni, tanto più che il marito di lei, uno degli studiosi incaricati di fermare il buco nero, si trova nella penosa situazione di proseguire la collaborazione con il simulacro della moglie morta. Ma Benford sceglie di vestire i panni del cronista di guerra e non dedica più che tanta attenzione a uno dei temi sicuramente più suggestivi del romanzo. Non solo: ci tiene a farci sapere che il buco nero ha come primo bersaglio gli USA, sia perché da anni gli States si prendono la briga di organizzare alleanze contro regimi terroristici e cattivi di ogni risma (te l’ho chiesto? verrebbe da dire), sia perché sono comunque la principale potenza del pianeta. Una potenza non eccessivamente ben organizzata, ci fa notare, spesso guidata da un presidente e da un gruppo dirigente non all’altezza del compito ma che, comunque, grazie all’oscuro lavoro di organizzazioni governative semisegrete, riesce – nonostante qualche topica – a vincere alla fine la sua guerra per conto dell’umanità.
La Terra sotto attacco è ovviamente, secondo la tradizione della sf di invasione, un pollaio in fiamme dove gli unici a mantenere un minimo di uso del cervello sono alcuni scienziati e pochi agenti dell’organizzazione governativa di cui sopra, ovvero una sorta di CIA futuribile. Un copione già usato qualche migliaio di volte e che, osavo sperare, perso per sempre.
In quanto, infine, all’intelligenza magnetica del buco nero Benford non spreca poi troppe delle sue prodigiose nozioni fisiche per spiegarci come funziona la mente dell’alieno. Curioso in un autore che fa della speculazione scientifica il suo elemento di punta.
In compenso Benford non lesina nella descrizione dell’ambiente della ricerca internazionale, del quale anche lui fa parte, evidenziandone piccole meschinità, pigrizie, rivalità e manie ma finendo comunque per rappresentarlo come l’unica isola di intelligenza nel vasto mare della stupidità umana.
Insomma, una prova davvero minore, un pasticcio ambizioso e non privo di spocchia i cui temi si possono riassumere in pochi punti: «Lasciate lavorare gli esperti», «Bisogna dare una bella lezione a chi ci attacca», «Comunque noi scienziati siamo il meglio sulla piazza».
Messaggi particolarmente inquietanti di questi tempi, non trovate?
Diverso e senz’altro migliore il Benford targato 1983.
Un oscuro infinito (titolo originale, più azzeccato Against infinity, «Contro l’infinito») è un romanzo che volutamente si allontana dalla tradizione del romanzo di sf per seguire invece quella del romanzo americano di frontiera, con abbondantissimi riferimenti a Moby Dick e qualche debito verso Mark Twain e Jack London.
«Trovo illeggibile gran parte della fantascienza» dice Benford in una vecchia intervista citata da Sandro Pergameno nella prefazione al romanzo, «… se leggi i migliori romanzi di Faulkner hai più probabilità di leggere qualcosa di buono rispetto alla maggior parte delle opere di sf, anche dei cosiddetti autori importanti del genere».
Si potrebbe affermare che questo è vero anche per Shakespeare, Kafka, Milton, Balzac, Tolstoi o Dante Alighieri, ma non vorrei sembrare troppo polemica con B. Certo è che il Ganimede di Un oscuro infinito ha molti più punti di contatto con lo Yukon di Jack London o con la Terranova di Capitani coraggiosi che con il sistema solare raccontato da A. C.Clarke, autore al quale spesso Benford è accostato.
Comunque a decidere di riferimenti e parentele potranno essere i lettori. Il romanzo è la storia di una caccia a una creatura aliena inafferrabile, antichissima e profondamente estranea: l’Aleph. A raccontarla in prima persona Manuel, il giovane protagonista, un predestinato chiamato a adempiere il proprio compito per conto della locale comunità umana: onesta, lavoratrice e la cui sopravvivenza è basata su poche regole fondamentali. Normale, per la Frontiera. Ma l’Aleph, Manuel se ne renderà conto gradualmente, è esigente, anzi totalizzante; assorbe ogni suo pensiero, diventa il punto di fuga di tutte le sue aspirazioni. Non è solo la prova di ingresso per entrare a far parte della comunità degli adulti ma è il passaggio necessario per approdare a una visione del mondo più ampia. Scegliendo la caccia all’Aleph Manuel sanzionerà definitivamente il suo distacco, accettando l’incolmabile frattura con le semplici emozioni e necessità delle sua gente.
Certo non è esattamente un tema nuovo. Da Herman Hesse fino al Gabbiano Jonathan Livingstone credo che tutti abbiano ben chiaro il tema: la solitudine è il prezzo di chi cerca di non perdere la propria unicità nel passaggio all’età adulta. Di buono nel romanzo di Benford c’è l’ambientazione, davvero degna delle storie artiche di London. Di meno buono i personaggi, inevitabilmente stereotipi, e una certa generale rigidità che si potrebbe attribuire al traduttore o, volendo essere generosi, un attento controllo della vicenda.
Gregory Benford, Il divoratore di mondi, Mondadori Urania 1421, Agosto 2001, pp. 315, trad. Vittorio Curtoni
Gregory Benford, Un oscuro infinito, Fanucci Solaria 16, Luglio 2001, pp. 268, trad. Alessandra Mazzoccoli
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