Ripresentiamo qui un articolo apparso su un vecchio LN, esattamente il numero 25 del marzo 2003. No, non fuggite, ci è capitato di rileggerlo alla ricerca di recensioni pubblicabili e siamo rimasti stupiti dalla sua evidente anche se involontaria attualità. Un articolo che presenta un punto di vista estremamente discutibile, probabilmente troppo polemico, ma capace di risvegliare un minimo di interesse e numerosi interrogativi su come vediamo la letteratura e soprattutto di come il business vede noi. Buona lettura!
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Mai come in questi ultimi anni l’apparizione, l’intervento, l’icona, il miraggio dell’Autore sembrano divenuti elementi risolutivi per il successo o il fallimento di un romanzo.
La disponibilità dell’autore ad «apparire», ovvero a essere – volente o nolente – cammellato per la penisola a comparire in presentazioni, festival, premi, giurie, sagre, tele- e radiotrasmissioni, oltre a creare una propria personalità on line, fa ormai parte integrante dei contratti proposti dai grandi editori. Agli autori viene richiesto un personale contributo allo smercio dell’amato parto letterario e praticamente nessuno può (o vuole) sottrarsi all’impegno, gravoso o gradito in rapporto a carattere e temperamento del pubblicato.
Mi sono chiesto se, dopo una dozzina di incontri con i lettori nei quali ha dovuto parlare del proprio testo, nell’autore non cominci a sorgere un’incontenibile rigetto verso se stesso e le proprie pagine. Ma la professionalità si vede anche nella capacità di resistere alla nausea in nome del rispetto verso i propri lettori (e verso la tiratura).
Sorprendente resta comunque il numero di parole che in breve tempo circondano il manipolo di parole scritte che formano il libro, come torme di selvaggi fin-de-siècle intorno al proverbiale manipolo di eroici colonialisti europei. Le parole selvagge minacciano, danzano brandendo lance e zagaglie, sovrastano e nascondono le parole assediate coprendone completamente la voce. Fino a quando, come nel più abominevole dei massacri, non restano che queste ultime: parole brade.
Per sfuggire a tale orrore cerco di non assistere mai a programmi televisivi nei quali sia ospite un autore di narrativa. Se girovagando tra i canali televisivi mi capita di incontrarne qualcuno ne rifuggo con lo zapping più dissennato e isterico.
Non ascolto programmi radiofonici che prevedano l’incontro con narratori o poeti. Nel caso cambio frequenza, spengo la radio o la commuto in CD o in tape. In internet evito le pagine dedicate agli autori, i siti personali, le presentazioni. Mi soffermo sulle bibliografie ignorando le biografie, considero i profili critici ed evito quelli psicologici.
Infine non metterei piede a Mantova nei giorni del festival della letteratura nemmeno se viaggio e soggiorno mi fossero gentilmente offerti da un ignoto benefattore.
Una raffica di dichiarazioni indiscutibilmente antipatiche e da perfetto bastian contrario, me ne rendo conto, ma che, tengo a dirlo, non coinvolgono minimamente la rivista né i suoi redattori. La mia è una posizione isolata e ultraminoritaria. Da relitto, da fossile, da cimelio.
Il fatto è che non me ne importa nulla di vedere l’autore. Me ne importa ancor meno di conoscerlo. Meno che meno di parlare con lui o con lei o di intrattenermi in sua compagnia. Non voglio che mi spieghi che cosa ha voluto dire con il libro che ha scritto e mi rifiuto di sapere che cosa avrebbe voluto scrivere ma poi ha rinunciato, non vi è riuscito o è stato diffidato dal fare.
Non mi interessa sapere come mangia, se dorme o non dorme, con chi divide il giaciglio, quali lavori ha fatto, quali posizioni politiche sostiene, se è a favore o contro la pillola del giorno dopo, il tanga, la guerra o il decoupage. Non mi riguarda se si ritiene soddisfatto della vita che conduce, me ne impipo che si batta per una causa giusta o per una causa non troppo giusta, popolare o impopolare, elitaria o demagogica; mi lascia del tutto indifferente apprendere direttamente da lui/lei quali libri ha amato e quali detestato, che cosa ne pensa dello stato dell’editoria in Italia o di qualunque altra cosa.
Ritengo che la pubblicazione di ritratti in ultima di copertina sia un’attività da questurini e che comunque il soggetto rappresentato finisca fatalmente per apparire un simulatore, prezzolato per rappresentare goffamente intensità e dolorosa coscienza della vanità del mondo.
Quando visito il Salone del Libro di Torino compio ampie deviazioni per evitare i caffé letterari, le presentazioni, le letture d’Autore. Cammino a testa bassa per non dover riconoscere nessuna silhouette da ultima di copertina e sono disposto persino a visitare lo stand del Battello a Vapore, gremito di elettroni in temporanee vesti infantili, piuttosto che ascoltare un’intervista.
Questa mia condotta si presenta nelle forme più ossessive e intolleranti quanto più trattasi di autore di libri da me amati o comunque importanti. L’epifania dell’Autore, in questo caso, è un puro e semplice disturbo, l’irruzione dell’incongruo – un motociclista in una cattedrale o una torta di compleanno a un funerale –, la comparsa di un elemento greve e materiale nel rapporto spirituale che sto intrattenendo con parole e immagini.
Una posizione di minoranza, ne convengo. Non solo, un’opinione pericolosa, nemica della diffusione della lettura, degna di un concetto di cultura come punizione, penitenza, sofferenza, dolore ed espiazione, un concetto che i nostri tempi di facile consumo hanno definitivamente sconfitto.
E infatti sconfitto mi sento, eccome. Sconfitto nel cercare di difendere la mia e altrui sfera privata, sconfitto nella difesa di un minimo di pudore. Non, sia chiaro, del pudore nel senso restrittivo e bigotto dei censori democristiani anni cinquanta e sessanta, ma pudore inteso come riserbo, penombra, silenzio scelto e desiderato.
Secondo i sostenitori dell’inflazione iconica la vista dell’Autore è un sicuro viatico alla vendita, un modo per ovviare all’inappetenza libraria che affligge più della metà della popolazione italiana. La visione salvifica dell’A. costituisce così un supporto visuale alla vendita del prodotto, un po’ come la sottiletta sciolta sui maccheroni fumanti o la modella nella vasca da bagno tatticamente riempita di schiuma. Vedere l’A., cominciare a consumarlo ancor prima di aver letto anche soltanto una sua riga dovrebbe far recedere la sensazione di inadeguatezza, la soggezione verso il libro inspirata in molti dal prodotto.
Dopo una mezz’ora, un’ora, una serata è infatti molto probabile che il lettore finisca – più o meno consciamente – per includere l’A. nel proprio universo familiare. E la famiglia, la conoscenza impongono doveri e responsabilità. E così come non acquistare il libro di Giovanni, Armando o Luisa, così simpatici, così disponibili, così alla mano, che l’hanno raccontato così bene…
Talmente bene che il libro viene acquistato, guardato, leggiucchiato ma difficilmente anche letto. Qui a scattare è un po’ lo stesso meccanismo in atto quando si preferisce ascoltare le confidenze di un perfetto estraneo piuttosto che l’ennesima lamentela del cognato o del padre. Storie che si sanno, già assaggiate, già sapute…
Non sempre va a finire così, sia chiaro. A volte l’incontro con l’autore è pronubo a un buon incontro con il libro. In fondo a qualcuno è davvero successo di sposare il bagnino o la ballerina di lap dance. Qualcuno non si è accontentato dell’apparenza, del bel discorso, della simpatia, di un parere equilibrato esposto con educazione o – dipende dal libro promosso – dello stupore, della sorpresa, dei modi bruschi e delle invettive. Qualcuno, nonostante tutto, ha deciso di leggere il libro.
Ma perché tanta fatica? Perché leggere con in mente ben chiara la faccia dell’A., quando si è impaperato, quando ha sbagliato una citazione, ha difeso un personaggio indifendibile, si è prodotto in una freddura poco brillante o ha inutilmente cercato di scandalizzare? Perché leggere chiedendosi se quella frase o quell’episodio del suo libro sono stati dettati all’A. dall’infanzia agiata o miserabile, dalla depressione dopo il divorzio o dalla passione per i diorami napoleonici?
Il desiderio di conoscere l’A. è un’esigenza che nasce, se nasce, soltanto dopo la lettura, perché si è stati mossi a curiosità da qualche passaggio, da una storia, da un particolare. Un impulso a integrare la lettura, a prolungarne il piacere. Ma un impulso che, almeno per quanto mi riguarda, assomiglia a un capriccio e come tale può essere ignorato e comunque non richiede minimamente la presenza personale o teletrasmessa dell’autore.
A tanta sovraesposizione si accompagna, soprattutto in questi ultimi anni, una sovrapproduzione – in ambito italiano ma non solo – di libri deboli, fragili, rachitici. Romanzetti troppo spesso gracilissimi, basati sul triplo salto mortale stilistico o sull’invenzione a corta gittata. Nella migliore delle ipotesi libretti gradevoli ma caduchi e subito dimenticabili e dimenticati.
Ed è così che nasce il fondato sospetto che tutto questo spostare di fondali, tutto questo apparire, spostarsi, esporsi, fare ciao con la manina e babau dalla telecamera sia in realtà un tentativo di dare sostanza a libri che non ne hanno, scambiando – come i bambini delle elementari – il peso con il volume, nel tentativo di vendere un metro cubo di schiuma mediatica al posto di 3 etti di libro.
Leggere è difficile. È faticoso. E soprattutto richiede tempo, tempo sottratto ai riti familiari dei quali la televisione e i social media sono parte integrante. Non solo: il libro richiede lucidità, silenzio, tempi non predeterminabili. Condizioni da rentiers o da feudatari, a pensarci bene.
E chissà, tutto questo rotolarsi tra autori e copertine non sarà forse soltanto l’ammissione di una sconfitta? Il tentativo di continuare a circondarsi di libri e di letture pur senza avere il tempo e il desiderio per creare le condizioni di una lettura appagante? Un chiacchierare a vuoto intorno al libro chiuso, esattamente come adolescenti che parlano di sesso senza avere, in realtà, ancora nulla di cui parlare?
L’ansia voyeuristica di vedere l’A. non nasce forse dalla nostre infelicità e frustrazione?
Ma come accade sempre più spesso anche i sintomi della nostra infelicità e della nostra frustrazione possono reincarnarsi in elementi di marketing, promozione, sell-out. La nostra impossibilità di leggere diventa così parte del frastuono mediatico, del carnevale perpetuo che narcotizza la nostra disperazione. Diventa schiuma.
In realtà è probabilmente questa la vera grande invenzione del capitalismo di inizio millennio: la capacità sublime di tradurre la frustrazione in denaro, la solitudine in audience. E, a pensarci bene, la paura in consenso.
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