La prima edizione integrale di questo libro uscì in Italia da Frassinelli con 19 anni di ritardo: «Storia di horror intesa sia come letteratura sia come divertissement, parte integrante della letteratura del ventesimo secolo» che si occupa anche dei film e delle produzioni televisive dedicate all’horror, perché è il cinema che dona «emozioni viscerali» a quelli che per stile e struttura restano soprattutto romanzi di idee. Theoria aveva già pubblicato nel 1985 il terzo e il decimo capitolo, in una versione che, nonostante le intenzioni lodevoli, mortificava il testo dei suoi maggiori motivi di interesse: ovvero il nono capitolo, dedicato agli autori di horror contemporanei; il lungo discorso, più volte ripreso, sul cinema di genere, e i continui, piacevoli riferimenti di King alle sue esperienze dirette, dai primi incontri infantili con l’horror cinematografico (alieni venuti dallo spazio, mutanti nati da esperimenti incauti o prodotti dalle radiazioni nucleari), alle prime letture, ai serial TV.
C’è in King un piacere di raccontare, e di raccontarsi, che non è fine a se stesso, ma è piuttosto un modo accattivante di argomentare le proprie opinioni, di prendere posizione. Dance macabre è contemporaneamente l’analisi delle radici ottocentesche del romanzo gotico e delle sue diramazioni nel Novecento, la dichiarazione di intenti di un autore e la spiegazione del suo modo di lavorare, il racconto gradevole di un’infanzia trascorsa in compagnia di mostri e creature venute dall’alto spazio, il ricordo lucido di una giovinezza vissuta in tempi difficili per l’America. Un buon cambiamento, rispetto ad altri saggi, spesso documentati e interessanti ma più accademici e distaccati, meno appassionati e meno ironici.
Il punto di forza del testo di King è l’intreccio tra la letteratura di genere e la sua traduzione in immagine e viceversa, alla ricerca degli echi e novità, di fedeltà e tradimenti, dei limiti e dei pregi dei due mezzi. Il cinema, la forma più importante di arte popolare del ‘900, ha trasformato i vecchi archetipi – Frankenstein, il Vampiro, il Licantropo e il Fantasma – attualizzandoli, avvicinandoli a noi, piegandoli ad esprimere malesseri e paure molto diversi da quelle di un tempo. Chi riuscirebbe, ormai, a separare il mostro di Frankenstein dolente e astuto impersonato da Boris Karloff dal paraletterato orfano del suo creatore di Mary Shelley? E chi – lettore / spettatore – non ha provato insieme sollievo e dolore per la sua morte?
Non sarebbe esatto dire che ci disperiamo quando il mostro di Frankenstein muore […] ma forse siamo almeno disgustati dal nostro stesso sollievo.
Ben consapevole della potenza anche perversa del mezzo cinematografico, King scrive una convincente difesa del cosiddetto B-movie:
Credo che il valore artistico offerto più frequentemente dal film horror sia l’abilità di instaurare una relazione tra le nostre paure immaginate e quelle reali.
Spesso questo miracolo non riesce, producendo pasticci esilaranti (il film veramente brutto), oppure pellicole semplicemente noiose. Ma, quando si compie, assolve il compito immane di «Fornire dei significati […] spesso comprensibili a tutti», di dare una forma tangibile alle nostre paure socio-politiche, personali, universali. I film di genere, anche i B-movies, possono essere specchi dei nostri terrori, sonde per esplorare i tabù e i desideri, le aree di disagio pubbliche e private. L’artista, in questi felici casi, non è mai consapevole del suo intento: Don Siegel con L’invasione degli ultracorpi non voleva fare un film sul comunismo o sul maccartismo, né Finney voleva scrivere un pamphlet. Eppure il romanzo e il film sono lì, simili eppure diversi, specchi oscuri che ci sfidano ad attraversarli, a guardare oltre.
Il genere horror è estremamente flessibile […] estremamente utile; l’autore e il regista possono usarlo come piede di porco per scardinare porte chiuse o come un piccolo grimaldello per aprire le serrature.
Ma perché leggere horror, perché vedere film di genere, perché fingere di “credere”? Per dimostrarci che possiamo resistere:
Quando paghiamo quattro o cinque dollari e ci sediamo al centro della decima fila di un cinema che proietta un film horror decidiamo di sfidare l’incubo.
Ma anche per
Ristabilire le nostre idee su ciò che è normalità: il film horror è conservatore per sua natura, persino reazionario.
Per divertirci. Ma anche per assaggiare la morte senza rischi, per imparare a convivere con il suo pensiero: «I film dell’orrore non sono sofisticati, è per questo che ci permettono di riguadagnare la nostra prospettiva infantile sulla morte». Non è innocente, quella prospettiva, ed è più ampia, più profonda, perché i bambini sono meno rigidi e più possibilisti; noi, gli adulti, siamo già entrati nel tunnel, guardiamo solo in avanti, pretendiamo di rendere tutto lineare, spiegabile, controllabile. Il bambino sa che il mondo è mistero, paura, irrazionalità.
Il lavoro dello scrittore del fantastico, o dello scrittore dell’orrore, è di allargare temporaneamente le pareti di quella visione a tunnel, di fornire quel terzo occhio [quello dell’immaginazione] di una singola, potente lente. Il lavoro dello scrittore del fantastico e dell’orrore è di farti tornare temporaneamente bambino.
Convincerci che esiste il Male per aiutarci a comprendere i mali e il dolore che ci circondano e sono dentro di noi. Un buon romanzo o un film horror riuscito ci restituiscono l’incubo senza mediazioni razionali. E soltanto finché l’incubo è vivo e vicino certi errori sono tangibili, comprensibili, e forse evitabili in futuro. Ecco perché ciò che troppo spesso i critici chiamano “grossolano”, l’emozione forte, lo schifo, il raccapriccio, il frisson funzionano: sangue, membra sparse, viscere – quando non fini a se stesse – ci impediscono di restarcene fuori, ci ricordano «la nostra comune umanità». Ci impauriscono e ci fanno piangere sulla sorte del mostro, ci fanno rabbrividire di paura e di piacere nell’attesa del vampiro… Ci fanno sentire, nelle viscere, nelle vene, che il reale è molto più, molto meno, molto diverso da ciò che pensiamo.
Stephen King, Danse Macabre, Sperling & Kupfer, 2006, ed. orig. 1981, pp. 478, € 11,90, trad. E. Nesi
Idem e-book, € 6,99
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