La guerra del 1948 ha spazzato via definitivamente il germoglio di Israele. Tutti i luoghi santi dell’ebraismo sono tornati in possesso degli arabi. Gli ebrei, scacciati dal Medio Oriente, hanno trovato un’altra terra ad ospitarli, sia pure provvisoriamente: Sitka, nella zona meridionale dell’Alaska, un’area grande più o meno come l’Abruzzo e scarsamente popolata.
A Siltka si parla Yiddish, i poliziotti sono ebrei mentre gli Stati Uniti lasciano fare anche se solo fino a un certo punto, più o meno in rapporto all’amministrazione in carica.
A Sitka, luogo in apparenza tranquillo, avviene un omicidio: viene ucciso un giovane ebreo, figlio del rabbino fondamentalista capo dei Verboven, gruppo radicale di ebrei ben decisi ad approdare – a qualsiasi costo – alla Terra Promessa.
A investigare sull’omicidio due poliziotti: uno, Landsman, è un ebreo non troppo osservante, con qualche conto non chiuso con l’alcool e, com’è classico nel noir, un matrimonio fallito alle spalle; il secondo, Berko, è figlio di un ebreo e di una pellerossa e cerca di essere all’altezza della tradizione religiosa ebraica.
L’indagine dei due segue la tradizione del poliziesco made in USA, mettendo in evidenza la differenza tra i due personaggi e illuminando gradualmente l’Israele subartico, comunque curiosamente credibile, sia pure con qualche inatteso ma divertente anacronismo, soprattutto nel raffigurare l’estrema destra religiosa. Ad aggiungersi e a controllarne le attività dei due arriva l’ex-moglie di Landsman, Bina Gelbfish, graduato di polizia. Bina appare fredda e sardonica nei confronti dell’ex-marito e il suo controllo appare talvolta eccessivo, soprattutto quando il lavoro dei due poliziotti, condotto tra giocatori di scacchi ed ebrei di origine tedesca, finisce per condurli molto vicino ai Verboven – i “cappelli neri” del romanzo – e alle loro attività oltreoceano.
Ma l’indagine dei due poliziotti finisce per condurli anche al passato di Sitka, fino alla sua origine e allo scontro semidimenticato tra i russi e i pellerossa, che illumina questa frazione di Alaska di una luce meno ovvia. Come nel Medio Oriente esiste un popolo antecedente agli ebrei, che non può né vuole essere dimenticato.
Ovviamente non darò alcuna indicazione della soluzione del giallo, anche perché il suo lato noir non ne costituisce l’aspetto fondamentale. Ciò che emerge con maggiore nettezza è la sensazione di privazione e smarrimento degli ebrei – in questo caso alaskani – ancora una volta lontani dalla loro terra promessa ma forse estranei ad ogni possibile angolo della Terra, come se la Ricerca fosse insieme maledizione e l’unico scopo della loro esistenza.
Un discreto libro, scritto da un autore immancabilmente di famiglia ebraica, immancabilmente colta, immancabilmente laureato in scrittura creativa, immancabilmente col massimo dei voti e immancabilmente vincitore del premio Pulitzer. Questo, detto per inciso, è stato anche il motivo per il quale mi sono tenuto lontano dai suoi libri, finora.
Principale difetto del romanzo, anche se è possibile che per qualcuno risulti un pregio, il gusto ultraletterario per le metafore, spesso efficaci, talvolta semplicemente dispersive e comunque impegnative e talvolta pesanti, più o meno come melanzane alla parmigiana con tonno, gorgonzola, sugo d’arrosto, panna e un’altra mezza dozzina di ingredienti non strettamente consigliati.
L’instancabile lavoro sulle metafore può dare come risultato, in qualche passaggio, la sensazione che l’autore abbia costeggiato, senza riuscire a entrarvi, i due generi – il giallo e l’ucronia – sui quali vive il romanzo. Ma le ultime cento pagine riescono a dissipare almeno in parte la sensazione di leggere un buon saggio di scrittura creativa. In sostanza se vi capita, leggetelo. Può essere una compagnia gradevole in certe serate nelle quali si decide di fare a meno del PC, del telefono e della TV.
Michael Chabon, Il sindacato dei poliziotti Yiddish
Rizzoli La Scala 2007, pp. 398, €19,00, trad. Matteo Colombo
Idem, Rizzoli Bur 2014, € 12,00
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.