Ottimo libro, questo di H. Gee, professore, editor scientifico e divulgatore, già noto al pubblico italiano per un saggio sulla antica storia della vita sulla Terra. Libro decisamente consigliabile, sia al biologo di mestiere che desideri rinfrescarsi la memoria con un viaggio gradevole nella storia, sia al dilettante, al curioso, all’appassionato che vogliano seguire in modo agevole l’avvincente percorso intellettuale compiuto dall’uomo nel tentativo di comprendere i meccanismi profondi della riproduzione e della trasmissione dei caratteri ereditari.
Il titolo è poetico ma forse lievemente ermetico; più esauriente e comprensibile è il sottotitolo, che, però non rende pienamente giustizia al contenuto. In realtà la materia del volume è una doppia storia fondata su due distinti argomenti che si intrecciano e vengono sviluppati intelligentemente in parallelo nel testo.
Il primo tema ha come soggetto agente l’intelletto umano: dotato di quest’arma acuminata l’uomo ha cominciato presto a porsi domande impegnative. Fin dagli albori della storia scritta, almeno, la sua curiosità è stata vellicata, tra l’altro, dal «mistero» della riproduzione. Posto che, in noi e negli altri mammiferi, la nuova vita si sviluppa nel ventre materno e assodato (ma c’è voluto tempo per comprenderlo) che a ciò sia indispensabile l’intervento maschile, la domanda fu: che cosa succede in realtà? È la femmina il semplice contenitore che accoglie la forza riproduttiva del maschio? O piuttosto il contributo maschile è solo quello di liberare il potenziale riproduttivo contenuto nel corpo della sua compagna? Ancora: com’è che da una coppia di individui di una certa specie nascono piccoli di quella e non altra? Com’è che da una coppia di neri nasce un bambino nero e da una coppia di bianchi un bambino bianco?
Non si sorrida di fronte all’apparente banalità di questi quesiti, anche molti uomini d’oggi non saprebbero dare una risposta chiara a tali interrogativi. Mettiamoci poi nei panni di un uomo del IV secolo A.C., curioso, di certo molto intelligente, di quelli che non si accontentano delle risposte del tipo «è così perché è così», dotato degli strumenti culturali del tempo e proviamo a formulare una risposta credibile. Aristotele, perché di lui stiamo parlando, provò per primo a interpretare questi fenomeni, sperimentando (sulle uova di gallina, ad esempio) e riflettendo. Dal suo pensiero parte la nostra storia: le teorie aristoteliche, in questo come in molti altri campi, costituirono una sorta di verità rivelata almeno fino al Rinascimento. Con lo sviluppo del pensiero critico quattro-cinquecentesco e il sorgere della scienza sperimentale il problema della riproduzione venne ripreso in considerazione e divenne rapidamente uno dei terreni più fecondi per lo sviluppo delle scienze della vita. Seguendo le ricerche, tra gli altri, di Harvey e Malpighi, di Bonnet e Spallanzani, si assiste allo svilupparsi di un appassionato dibattito, che divide gli studiosi in epigenetisti e preformisti (e questi ultimi in ovisti e spermisti), che si rinnova con l’invenzione del microscopio ed il sorgere della teoria cellulare, e che conduce infine alla nascita dell’embriologia moderna nell’ottocento.
Se col diciannovesimo secolo i meccanismi fondamentali della fecondazione e dell’embriogenesi diventano, almeno nei termini generali, finalmente palesi, la chiarificazione dei meccanismi di trasmissione dell’ereditarietà richiederà molto più tempo e si trascinerà fino ai giorni nostri. I famosi studi di Mendel sui piselli odorosi costituiscono, a posteriori, nella nostra visione un po’ teatrale di quest’epopea, un discrimine temporale nel flusso delle scoperte sui meccanismi di trasmissione dei caratteri. In realtà il processo non fu affatto lineare: basti pensare che nel 1859, quando già da anni Mendel conduceva i suoi esperimenti, che se correttamente interpretati e generalizzati, avrebbero potuto costituire una chiave di comprensione potentissima, Darwin diede alle stampe L’origine delle specie in cui proponeva una formidabile e coerente spiegazione dei meccanismi evolutivi, spiegazione che trovava il suo più pericoloso punto debole per l’appunto nella mancanza di una fondata teoria sulla trasmissione dei caratteri.
Dobbiamo arrivare a cavallo tra l’otto e il novecento per assistere ad un nuovo e decisivo passo avanti. Con Bateson, Morgan (quello delle drosofile) e De Vries prende avvio definitivamente la disciplina biologica che oggi chiamiamo genetica, con il suo poderoso carico di informazioni e con una sostanziale verità gravida di significati: nella trasmissione dei caratteri ereditari è fondamentale il fatto che il meccanismo funzioni correttamente ad ogni generazione, ma è altrettanto indispensabile che ad ogni generazione si verifichino «imprecisioni» nel passaggio delle informazioni. La prima metà dell’enunciato garantisce che da una coppia di cavalli nasca un cavallino e da una quercia altre querce, la seconda metà ci garantisce invece che ognuno di noi nasce con un carico di diversità rispetto alla generazione precedente e che questa variabilità è l’humus del processo evolutivo. Questa ultima considerazione verrà poi sviluppata attorno alla metà del novecento da studiosi come Dobzhanski, Mayr e Simpson i quali ne faranno uno dei pilastri di quella che passerà alla storia come teoria sintetica dell’evoluzione.
Manca ancora una fase, la più prossima a noi. A partire dall’individuazione dei cromosomi e del loro ruolo, si apre una ricerca vastissima sulla natura chimica dei meccanismi ereditari e delle sostanze che vi partecipano. Il culmine di questa investigazione è la rivelazione della struttura complessa della molecola del DNA da parte di Watson e Crick nel 1953. Ciò aprì la strada alla comprensione sempre più raffinata della funzionalità dei geni fino alle più recenti intuizioni relative alle modalità di regolazione del genoma ed alla natura dei geni homebox.
Siamo quindi arrivati all’oggi, con l’ingegneria genetica e la proteomica; siamo alla fine, per ora, della nostra storia. Anzi, della prima parte della storia. Perché ne cominciamo ora un’altra, altrettanto importante ed affascinante che proverò a sintetizzare con pochi tratti. Se si considera nella globalità il genoma di un qualsiasi animale superiore, non si può non rimanere colpiti dalla sua grande complessità strutturale e funzionale. Troveremo grandi quantità di sequenze geniche ripetute migliaia di volte, apparentemente inutili, sviluppate, si direbbe al di fuori del controllo della selezione naturale; troveremo geni funzionanti presenti in copie multiple a volte dissimili per pochissimi nucleotidi, geni per lo più costituiti da molte parti distribuite lungo un cromosoma, unità funzionali quindi, ma non fisiche, incontreremo sistemi di regolazione dell’espressione genica che rispondono alle sollecitazioni ambientali e funzionano con meccanismi a feedback, in tandem, a cascata, magari solo in un determinato momento della vita. Un’indagine comparativa ci porterà ad individuare famiglie di geni presenti in tutto il regno animale, o in una sua parte significativa, deputati a svolgere lo stesso compito o ruoli omologhi e confrontabili, magari proprio di regolazione dei processi morfogenetici fondamentali, come la cefalizzazione in un embrione o la formazione di segmenti corporei negli Anellidi e negli Artropodi. Ci si renderà quindi conto che l’intero genoma è sottoposto a processi evolutivi, ha una lunga e complessa storia evolutiva che affonda le cui radici risalgono a migliaia di milioni di anni fa. Vi sono geni, o sistemi genici, che condividiamo, con poche variazioni, con tutti gli altri esseri viventi, muffe e nematodi compresi. Sono sistemi fondamentali, come quelli che presiedono alla biochimica della respirazione aerobica e che una volta comparsi sulla scena della vita, si sono trasmessi, passando attraverso le maglie della selezione naturale, fino a noi. Altri geni sono mutati lentamente, attraverso duplicazioni, trasposizioni, inversioni e quant’altro, venendo a rivestire ruoli nuovi, soltanto lontanamente riconducibili a quelli primordiali, aprendo quindi nuove strade nel processo di evoluzione morfologica e funzionale dei viventi.
La storia delle ricerche e delle scoperte relative all’informazione genetica è dunque anche la storia della scoperta della storia stessa del genoma ed è tutt’uno con la storia della vita sulla Terra. Questa è l’ossatura del libro di Gee, ed è il motivo fondamentale per il quale ripeto il mio consiglio: leggetelo.
.
Henry Gee, La scala di Giacobbe Storia del genoma umano
Bollati Boringhieri 2008, pp. 250, € 36,00
trad. S. Ferraresi
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.