Verso la metà degli anni ottanta venne segnalata la presenza, sui fondali sottostanti il Museo Oceanografico di Monaco, di un’alga tropicale, identificata successivamente come Caulerpa taxifolia, ignota fino ad allora nel Mediterraneo. La notizia arrivò, alcuni anni dopo e più o meno casualmente, all’autore del libro, docente universitario di biologia ed esperto di alghe tropicali. Meinesz, dopo una serie di immersioni esplorative e dopo aver preso contatto con il Museo di Monaco e con alcuni «testimoni oculari» della presenza dell’alga, inizia una battaglia contro l’espansione della malapianta nel Mediterraneo, per la sua eradicazione. Si mette in moto allora un complesso meccanismo di pro e contro, di testimonianze a favore del pericolo rappresentato dall’alga per l’ecosistema del Mare Nostrum e di esperimenti che dimostrerebbero il contrario; si conducono indagini che sembrano comprovare la rapida e inesorabile espansione della specie a partire da un primo punto di rilascio involontario (l’Acquario di Monaco) e altri propongono teorie che sostengono origini diverse (e «naturali») del popolamento dell’alga nel Mediterraneo; si scopre che gli esemplari di C. taxifolia del Mediterraneo si riproducono asessualmente e che probabilmente sono tutti cloni di un solo individuo mutato, particolarmente resistente alle basse temperature, mentre c’è chi addirittura mette in dubbio che si tratti proprio della specie incriminata e non di un’altra; si coinvolgono politici e amministratori che palesemente non hanno nessuna voglia di farsi coinvolgere; la stampa si mobilita, a volte con competenza a volte come un elefante in cristalleria, oppure viene mobilitata e non sempre con limpidezza; dulcis in fundo, e soprattutto, nel cosiddetto mondo della scienza ci si confronta (troppo poco), ci si scontra (molto), si litiga, si arriva agli insulti. Nel frattempo, e siamo nel 2000, l’alga giunge a occupare una superficie complessiva di oltre 12.000 ettari lungo le coste di sei paesi del Mediterraneo centrooccidentale mentre a livello di grandi istituzioni nazionali nessuna decisione viene presa, se non forse quella di non decidere.
Questo costituisce il succo della prima parte del libro, che potrebbe già essere in tal modo interessante, anche se forse un po’ troppo cronachistico. Alla terza, breve parte del volume val la pena accennare solo di sfuggita, se non per dire che non pare una brutta idea averla dedicata alla descrizione della biologia della C. taxifolia, che in qualità di protagonista dell’affaire, merita di essere conosciuta a fondo.
È però la seconda parte del libro a essere la più stimolante; in essa Meinesz cerca di mettere in evidenza alcuni problemi che l’esperienza di questa querelle gli ha illuminato. Credo che siano proprio quelli che possiedono una valenza generale. Il primo tema è quello dell’introduzione di specie estranee in un determinato sistema ecologico. Le invasioni di specie alloctone sono sempre avvenute, in modo «naturale», e i paleontologi hanno documentato fior di esempi del passato con relativi effetti «devastanti» sulle specie indigene. È innegabile però che nell’era industriale l’uomo abbia forzato e concentrato in poco tempo un gran numero di eventi del genere, di norma senza preoccuparsene più di tanto. Molte invasioni si sono spente senza botti, ma alcune (poche, molte, troppe?) hanno avuto invece effetti drammatici. Quando questi hanno significato un danno economico diretto l’uomo ha fatto fuoco e fiamme (si pensi ai conigli in Australia combattuti addirittura con un morbo contagioso, la mixomatosi) altrimenti la risposta è stata di solito tiepida. A volte prevale la miopia e il problema non viene percepito come tale fino a quando non è troppo tardi, come nel caso del giacinto d’acqua. Altre volte prevale semplicemente la miscela esplosiva di interesse economico spicciolo e di stoltezza, come nel caso delle tartarughine d’acqua della Florida che continuano a essere commercializzate in Europa e rilasciate in fiumi e laghetti dai proprietari quando diventano, come è giusto che sia, un po’ più grandi. Dietro al rilascio di una specie estranea ci sono spesso precise responsabilità: ciò spiega perché parte dello scontro attorno la C. taxifolia si svolga proprio attorno al tema: l’alga è arrivata nel Mediterraneo grazie all’uomo (nella fattispecie per colpa del Museo di Monaco) o per i fatti suoi, magari attraverso il Canale di Suez? Qui si sono verificati alcuni dei litigi più violenti. E siamo al secondo tema: questi litigi, di fioretto ma anche di bastone, sono avvenuti tra scienziati, spesso di pari competenza, che conducendo esperienze diverse, sulla base di dati differenti, sono pervenuti a sostenere risultati e opinioni diametralmente opposti. Gli scienziati sono uomini, questo è ovvio, ma anche la scienza è molto umana e non si affranca facilmente dalla Weltanschauung dei suoi attori. Anche ciò è naturale ma in un epoca in cui la Scienza (con la maiuscola e la corona) può e deve potere praticamente tutto lo spettacolo di tanta incertezza, di tanto e ben motivato spirito di parte, di tanta acrimonia non può non far sorgere dubbi sul valore oggettivo di tante dichiarazioni. Che la polemica sia viscerale, più di quanto i dati e le statistiche dovrebbero consentire, e tutt’altro che spenta, è testimoniato ad esempio dal breve, discutibile e violento articolo a firma R. Bedini, apparso su «Tutto Scienze e Tecnologie» del 19 dicembre 2001. Terzo e ultimo tema, fra i tanti del libro, da mettere in evidenza. L’autore sostiene, e non è solo, che vi sarebbe una tendenza economica, sociale, ma anche culturale a privilegiare una parte delle Scienze della vita, che chiameremo per capirci «riduzionistica» – biochimica, biologia molecolare, ingegneria genetica et similia – a scapito di quella che, sempre per capirci, chiameremo «olistica» – l’ecologia fondamentalmente, con il supporto della sistematica -. È lungi da me il proposito di entrare nel merito di un dibattito che richiederebbe ben altro spazio e perizia, ma vorrei comunque sottolineare il carattere non peregrino della questione, legata, per esempio in ambito accademico, a serie faccende di finanziamento delle ricerche. In pratica la tenzone si muoverebbe attorno al fatto che una parte delle Scienze della vita ha una ricaduta immediata, in termini economici, produttivi e sociali e quindi si «mantiene» finanziariamente con questa resa, mentre un’altra parte produce cultura di molto minor impatto antropico (almeno in termini immediati), non è facilmente spendibile, anche in senso stretto, e quindi è e tende a restare povera. Questa debolezza si rifletterebbe poi nella scarsa capacità da parte di questo settore delle Scienze Biologiche a pesare nelle scelte politiche e finanziarie in materia di ambiente, educazione ecc. Meinesz sta, professionalmente e culturalmente, dalla parte dell’ecologia cioè dalla parte debole. È perfettamente possibile che il suo quadro della realtà sia viziato dalla frustrazione che ne deriva; ciononostante non si può fare a meno di rilevare che esiste in molti addetti ai lavori la sensazione sgradevole che questa discrepanza di status tra le due anime delle scienze della vita non sia soltanto il prodotto di un fraintendimento della realtà.
Alexandre Meinesz,
L’Alga assassina, Caulerpa taxifolia: un attentato alla biodiversità del Mediterraneo.
Bollati Boringhieri 2001, ed. or. 1997, pp. 285, € 24,79, trad. U. Franciosi
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