Il «luogo» di Foe di J. M. Coetzee è un palcoscenico difficile che la maggior parte degli scrittori – a cominciare da quelli inglesi – eviterebbe di scegliere: l’isola di Robinson Crusoe, manifestazione della natura selvaggia che la volontà umana di sforza di incivilire, direttamente e nella persona di Vernerdì. Topos letterario difficilissimo da maneggiare, l’isola possiede una forza d’inerzia che Cruso, ombra enigmatica del determinato e borghese Robinson Crusoe non riesca a piegare. Il Venerdì di Coetzee, privo di linguaggio perché letteralmente privo di lingua, è una forza dionisiaca e inconsapevole di sé (non possiede le parole, quindi, a tutti gli effetti rilevanti per la storia, non pensa) che nessun bianco riuscirà a guadagnare alla «civiltà». L’unica volontà apparentemente dotata di direzione e autoriflessione è Susan Barton, madre alla vana ricerca della figlia (forse inesistente, forse a sua volta alla ricerca della madre), che naufraga per caso nell’isola dei due uomini. È Susan e soltanto lei che in un mondo mascolino sembra dotata di un progettualità concreta e, riportata a Londra da una nave provvidenziale sulla quale Cruso si spegne, si incarica di convincere lo scrittore Foe a scrivere la loro storia, che coincide con la storia dell’isola. La storia però si rivela impossibile da narrare: «Non è una storia noiosa anche se è troppo monotona» si giustifica Foe, convinto che la vera storia preceda l’arrivo di Susan sull’isola. Non vi succede nulla, se non l’assurda battaglia di Cruso per terrazzare le pendici della sua piccola terra, ben sapendo di non aver nemmeno un seme da farvi crescere.
Il pericolo sull’isola era di abbandonarsi al sonno. Come sarebbe stato facile prolungare sempre più il nostro torpore durante le ore del giorno, fino a morire di inedia stretti nell’abbraccio del sonno …
L’unico mistero di quel luogo è Venerdì che, non potendo imparare la lingua dei bianchi, resta irriducibilmente alieno e molto più pericoloso di un semplice «cannibale».
Sui dolori di Venerdì, ho pensato una volta di dire al signor Foe senza poi farlo, si potrebbe costruire una storia a sé stante, mentre dall’indifferenza di Cruso si può spremere ben poco.
Insieme gioco letterario e profonda riflessione sulla scrittura, Foe rivisita la grande tradizione europea del viaggio che conferisce nuovi significati alla quotidianità e ingiunge di cambiare punti di vista sul mondo. È anche una storia straordinariamente ben raccontata che avvince il lettore nonostante le (poche) conferme e le (molte) disillusioni rispetto alla vicenda originale. C’è una magia nella storia narrata da Susan e mai scritta da un Foe ormai vecchio e inseguito dai creditori, che induce a continuare la lettura, ben sapendo che Coetzee ha piegato e attorcigliato la vicenda lineare di De Foe a suggerire ciò che l’autore settecentesco non avrebbe mai inteso dire.
In ogni storia c’è un silenzio, uno scorcio celato, un parola non detta, credo, finché non si giunge al non detto, non si giunge al cuore della storia.
Peccato aver dovuto aspettare quasi vent’anni per leggere un’opera ancora più significativa ai tempi della pubblicazione originale (1986).
J. M. Coetzee, Foe
Einaudi Supercoralli 2005 (ed. or. 1986), pp. 146, € 15,00, trad. Franca Cavagnoli
Idem, Einaudi ET Scrittori 2007, pp. 146, € 9,50
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