Leggendo l’incipit di un romanzo o di un racconto il lettore fa la conoscenza con un mondo – molto simile o diversissimo dal proprio, realistico o fantastico – e, soprattutto, con il narratore, la «voce» dietro cui l’autore si nasconde e si mimetizza. «Quel ramo del lago di Como[…]». La descrizione è precisa, quasi geografica, don Abbondio, Agnese, Renzo e Lucia non sono menzionati nei libri di storia (ma lo sono, ad esempio, la monaca di Monza e il cardinal Borromeo), eppure a nessun lettore verrebbe in mente di dubitare della sincerità di Manzoni, in questo narratore affidabilissimo. Ma quando lo scrittore abbandona la terza persona e la posizione esterna di chi sa e vede tutto della vicenda e del cuore dei suoi personaggi per dire «io», il lettore farebbe bene a stare in campana: forse sta per leggere un diario, o forse una cronaca precisa appena mascherata da narrazione, ma la scelta di un punto di vista parziale è spesso determinante: in quella storia, «io» (e il lettore con lui) vivrà e racconterà soltanto una parte della vicenda, la interpreterà con la propria sensibilità e la caricherà dei propri dubbi e della proprie speranze: perfino un romanzo storico autorevole come Barry Lindon è fortemente influenzato dalla disarmante amoralità del protagonista, dalla sua propensione all’inganno e all’autoinganno. La prima persona (e tutte le sue derivazioni, come l’indiretto libero) è il punto di vista preferito da chi si dedica al genere fantastico, dai viaggiatori di quel territorio («territorio del diavolo», per rubare una definizione a Flannery O’Connor) dove tutto è incerto, le percezioni amplificate e ingannevoli, e l’inspiegabile aspetta dietro l’angolo: un luogo che somiglia maledettamente alla nostra anima.
Tra questi narratori occupano posti di tutto rilievo il giappponese Katzuo Ishiguro e l’inglese Patrick McGrath, soave, avviluppante e allusivo il primo, cupo e ossessivo, con sprazzi di humour nero, il secondo. Entrambi ci hanno raccontato storie complesse e irrisolte. Basterà ricordare Un artista del mondo effimero di Ishiguro, nel quale il protagonista torna a rivisitare più e più volte le medesime vicende, scusandosi, giustificandosi, mutando lentamente ma inesorabilmente prospettiva, sino a che il lettore non sa più decidere della sua innocenza o del suo grado di compromissione con il regime giapponese durante la seconda guerra mondiale. O il tremendo sir Hugo Coal di Grottesco di McGrath, che, nel corso del romanzo scivola quasi inavvertitamente dal ruolo di vittima infelice e testimone ingannato a quello di un possibile tiranno malevolo e assassino. Nel loro ultimo romanzo entrambi gli autori hanno compiuto un ulteriore passo verso l’inaffidabilità, raccontando vicende estremamente differenti, ambientate in mondi lontanissimi (per McGrath l’Inghilterra e l’America ai tempi della rivoluzione americana, per Ishiguro Shangai negli anni precedenti e seguenti la seconda guerra mondiale), che curiosamente approdano a risultati molto simili. Entrambi hanno scelto periodi di grandi rivolgimenti storici, che trascinano e disperdono la vita dei singoli; entrambi «giocano» con la narrazione di genere (Ishiguro con il poliziesco, McGrath con il romanzo d’appendice); entrambi sanno trascinare il lettore, senza fiato e disorientato, ma divertito e intrigato dal ritmo e dal pathos, fino a fargli dire: «Questa storia è incredibile. Ma fino a che punto? Dove comincia la menzogna? E chi sta mentendo? E perché?».
Cominciamo dal romanzo di Ishiguro, Quando eravamo orfani. Il narratore, un bambino inglese cresciuto nella Shangai degli anni venti, con un amico d’infanzia giapponese, dopo la sparizione misteriosa dei genitori viene rispedito in patria presso una zia e cresce da inglese benestante tornando infine a Shangai alla vigilia del conflitto per cercare, senza successo, i genitori. La sua storia non convince: uscito da poco dal college il gentleman diventa «detective», una professione, apprendiamo, ambita e sognata da moltissimi giovani inglesi. Svela misteri, scopre e fa arrestare pericolosi criminali ottenendo la gratitudine delle forze dell’ordine e l’ammirazione del pubblico, ma di questi suoi «successi» il lettore ha sempre e solo la sua parola. … È un narratore estremamente parziale: amici e conoscenti diventano «buoni» o «cattivi» a seconda dei suoi stati d’animo e della loro disponibilità ad assecondarlo; amicizia e amore diventano più forti quanto più il loro oggetto è lontano; i genitori, personaggi vaghi sospesi tra ricordo e fantasia, sono – nella mente del protagonista – ma anche nella tranquilla accettazione dei poliziotti di Shangai, tenuti prigionieri da almeno vent’anni da crudeli signori del crimine, sempre nella medesima casa, alla quale, per una ragione o per l’altra è impossibile avvicinarsi; Akira, l’amico di infazia, si trasforma prevedibilmente nel nemico adulto in un fumettistico incontro notturno… Avvinto nella ragnatela tessuta da Ishiguro, il lettore si aggira fra piccoli episodi, di volta in volta toccanti, rivelatori, divertenti, tutti ugualmente credibili, tutti alla fin fine «impossibili».
Altrettanto sorprendente il romanzo di McGrath, Martha Peake, un gotico di gran classe che l’autore si diverte a contaminare con i toni e i colpi di scena del romanzo d’appendice, e con le problematiche e le digressioni del romanzo storico ottocentesco. La storia di Harry Peake, nato povero ma pieno di intelligenza e talento, che si arricchisce con il contrabbando, provoca involontariamente la morte in un incendio della giovane amatissima moglie e resta per sempre sfigurato e ingobbito nell’incidente, ricorda insieme Cime tempestose, Notre dame de Paris, I miserabili, mentre la vicenda di sua figlia Martha, ragazza precoce che sostiene il padre nella sua ricerca di riscatto senza riuscire a salvarlo dall’alcool, e la sua fuga nel Nuovo Mondo, eroina involontaria della rivoluzione americana, aggiunge il sapore dei romanzi avventurosi di James Curwood e di Fenimore Cooper. Nulla, nella storia è lasciato al caso, McGrath si riconferma un regista abilissimo giocando con un numero sempre maggiore di specchi (la vicenda è raccontata a un narratore fin troppo coinvolto da un vecchio zio evasivo e smemorato con l’aiuto di frammenti rovinati dal tempo delle lettere di Martha) e spiazzando continuamente il lettore che non sa più che genere di romanzo sta leggendo. Ad Harry e a Marha succede letteralmente di tutto, e tutto «sembra» assolutamente plausibile (per il tono sommesso e le minuziose notazioni psicologiche) e completamente incredibile. I due romanzi danno al lettore la sensazione inquietante di galleggiare in un liquido tiepido e denso, che insieme accarezza, sostiene e offre resistenza a ogni tentativo di penetrarlo. Nelle pagine finali entrambi i protagonisti guardano alle loro storie con calma distanza e serena rassegnazione, consentendo al lettore la pace ingannevole di un epilogo (ma non di una «fine»). E il lettore riemerge con un sospiro di sollievo, per ripiombare immediatamente dopo nel dubbio più grosso: «Che cosa avrà voluto dirmi, l’autore? Che cosa mi ha tenuto nascosto? Perché?»
Katsuo Ishiguro, Quando eravamo orfani
Trad. Susanna Basso, Einaudi 2001, ed. or. 2000, pp. 326, € 17,56
idem, Einaudi 2002, ET Scrittori, € 9,80
Patrick McGrath, Martha Peake
Trad. Annamaria Raffo, Bompiani, 2003, ed. or. 2000, pp. 372, € 9,80
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