I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma egli rispose: «Quando si fa sera, voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia”; e al mattino: “Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo”. Sapete dunque interpretare i segni del cielo e non sapete distinguere l’aspetto dei tempi? Una generazione perversa e adultera cerca un segno, ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona». E lasciatili, se ne andò.(Matteo 16, 1-4)
«Rosso di sera, bel tempo si spera. Rosso di mattina, la pioggia s’avvicina».
Il proverbio, da proverbio, si ritaglia una tana negli interstizi delle volute del cervello, si àncora a qualche neurone deputato all’esercizio della memoria, e non si muove più. E dal quel momento in poi risulterà del tutto impossibile non richiamarlo alla sfera cosciente quando il cielo occidentale deciderà di imitare un piatto di patatine fritte annegato nel ketchup. Sia che ci si stia quasi addormentando lungo una sterile autostrada, sia che lo squarcio arabescante di gialli e d’arancioni si stagli tra due grigi condomini di periferia, sarà sempre la forza violenta del tramonto, lo scandaloso e banalissimo rituale del grande spettacolo dell’Ovest, l’elementare e poco sofisticato stupore della bellezza sfacciata e arrogante della luce morente, a ricordarcelo. Rosso di sera, come no, ma anche arancio, giallo, porpora, fucsia, granata, grigio-azzurro, piombo fuso. E con tanto di raggio verde anche, se uno ha la pazienza di aspettarlo e la fortuna di vederlo. Rosso di sera, certo, e come si fa a non sperare bel tempo, dopo una tale catarsi? È il cielo stesso che si muove a pietà, forse; perché se i proverbi partenopei suggeriscono di vedere Napoli per poi poter morire in pace, cosa resta da fare a un cielo dopo aver prodotto uno degli spettacoli migliori della natura (e a basso costo, poi, e a qualsiasi latitudine)? Può solo rassicurarci, promettendoci che il giorno dopo sarà non meno bello, non meno affascinante, e forse ancora più mirabolante. Sennò – Napoli docet – dopo la cruda e rosseggiante violenza d’un tramonto di folgorante bellezza, tanto varrebbe lasciarsi morire. Ma l’altra metà del proverbio, invece, anche se diligentemente ricordata dalle sacre scritture, non rimane altrettanto familiare nelle circonvoluzioni mnemoniche. Rosso di mattina, pioggia che s’avvicina? E chi lo guarda più, il cielo di mattina?
Qualche raro fornaio, un paio di tardivi metronotte, e sparuti pendolari estremi che però rifiutano sempre di alzare lo sguardo verso Est, cercando ancora una tenebra rassicurante, accogliente, dove rifugiarsi appena possibile, sul sedile del treno, sullo scomodo strapuntino dell’autobus. Poi, per la miseria, che l’alba sia bella si sa, ma la sua è bellezza ancora mutevole, promiscua, tutta da verificare, perché è solo preventiva. Non ha la tenerezza morbida e consuntiva del tramonto, la consolante vibrazione del riposo alle porte, meritato o meno che sia. E allora sia pure, che il rosso dell’aurora sia eletto ad araldo di tempesta, chi se ne importa? Tanto, alla peggio, sarà tempesta grigia e già pronta come un pasto precotto alla mensa, non gradito ma nemmeno inaspettato, perché il futuro, se non contiene almeno una notte, non interessa a nessuno. Ciò nonostante, l’evangelista mette in bocca proprio a Gesù Cristo il vaticinio, e allora il proverbio è di tutt’altro che umili origini, se può vantare una simile alta ratifica. C’è insomma – inutile negarlo – perfino il rischio che sia proverbio con qualche ragione d’essere, al contrario di altri suoi improvvidi confratelli («Donna baffuta, sempre piaciuta» – ma quando mai? Ma dove? Ma neppure al circo Togni…). Come verificare, allora? Come allineare tradizione e modernità, scienza e fede? Esiste chi può raccontarci con la dovuta poesia il vermigliare serotino, coniugandolo con quel tanto di asettica meteorologia che sia in grado di estrarne le recondite previsioni di bel tempo? Beh, sì, esiste. Sembra proprio di sì. In ultima analisi, tutto sembra dipendere dagli altostrati. Che hanno certo un nome curioso, ma certo meno complesso dei cirrocumuli, e meno minaccioso dei torreggianti cumulonembi. Gli altostrati se ne stanno lì – alti, appunto – tra i duemila e gli ottomila metri, e il sole dell’alba e del tramonto li illumina «da sotto». Di solito, quel giallo esibizionista preferisce illuminare le nuvole da sopra, giocando a rimpiattino con tutti i tipi a disposizione; però quando è basso e dritto sull’orizzonte i suoi raggi radenti non disdegnano d’accarezzare la parte inferiore delle nuvole alte. E gli altostrati – che sono nuvole noiose oltre ogni dire – rivelano per brevi istanti la loro melliflua rugosità, colorandosi ai raggi della stella nostrana. Raggi che, dovendo attraversare una sezione insolitamente lunga d’atmosfera, perdono come una stripteaser tutte le algide alte frequenze, viola, blu, verdi, lasciando passare solo le placidissime e tiepide lunghezze d’onda del rosso. Per questo le albe e i tramonti sono rossi. Per questo le nuvole sfolgorano alte e purpuree, a volte. A volte, non sempre: perché per far brillare gli altostrati (lo abbiamo già detto, che sono alti?) occorre che il cielo sia sereno e pulito, tra loro e la superficie del pianeta. Così, se guardate un tramonto e lo vedete esplodere di rosso, non solo potete lasciarvi sopraffare dalla bellezza e ridere sotto i baffi della misera approssimazione dei quadri di Turner, ma potete anche concludere che il cielo è sereno, a Ovest. E siccome, nella metà boreale della Terra, il tempo meteorologico si muove da Ovest verso Est, potete ragionevolmente aspettarvi che quel sereno che si vede in lontananza arriverà anche sopra le vostre teste. All’alba, invece, il rosso indica la stessa cosa, solo che il sereno è passato e vi sta salutando, proseguendo il suo viaggio in direzione di Trebisonda e Samarcanda; e se il sereno se ne va, c’è poco di che stare allegri. A dubbio risolto, è facile cedere alle tentazioni. E gli interrogativi si sguinzagliano liberi e felici, dopo un letargo cominciato alle elementari, che intravede la possibilità d’un definitivo e razionale risveglio: «E la Candelora? È proprio vero che dell’inverno semo fora?» – «E le pecorelle? Non posso credere che davvero preannuncino acqua a catinelle!» – «Ho sentito cantare la rana, ma è poi vero che la pioggia non è lontana?». E un rischio simile è deleterio, quasi tragico: perché risposte troppo tecniche (e i proverbi sono l’essenza della tecnica popolare) rischiano alla fine d’impoverire la poesia ardita e contemporanea del misterioso formarsi d’un cumulonembo. E allora occorre staccarsi dalla curiosità più meschina (ma solo fino a un certo punto, poi,
perché, a ben vedere, la storia delle pecorelle e delle catinelle avrà anch’essa risposta) per lasciarsi trasportare sui cirri di ghiaccio, sentirli fremere nel freddo dei quaranta gradi sotto zero, riconoscerne la somiglianza (per quanto nascosta) con i cumuli che da sempre popolano i disegni dei bambini, e, soprattutto, rinunciare una volta per tutte al perdurare delle forme. Perché alla fine è tutta lì, la magia che resiste indomita; tutta nella definitiva rinuncia al catalogo stabile, alla tassonomia perdurante, alla foto segnaletica. Questo libro che gioisce delle nuvole e che regala emozioni fatte di acqueo vapore sembra a prima vista proprio solo un linneiano e diligente catalogo: un capitolo ai cumuli, uno agli strati, un altro ai cirri e un altro ancora a cumulonembi… Ma poi è l’autore stesso il primo a mettere in guardia il lettore; «le nuvole cambiano, mutano, precipitano una nell’altra, e sono leggibili sono dinamicamente», ripete in più punti Gavin Pretor-Pinney, il coraggioso londinese fondatore della Società per l’Apprezzamento delle Nuvole (www.cloudappreciationsociety.com) di cui questo Cloudspotting altro non è che un riassunto su carta. E allora bisogna davvero rinunciare alle forme: bisogna accontentarsi d’un nulla mutevole, variabile ed effimero (tale e quale alla vita, insomma), e accettare la magia dell’instabile e dell’informe. E non è rinuncia da poco. Sono le forme, i nostri punti di ancoraggio alla terra, da sempre. Riconosciamo luoghi e facce per la loro stabilità, per il loro perdurare. Al punto che sono proprio le mutazioni impreviste, non richieste, a spaventarci di più: quella vecchia casa abbattuta e sostituita da un brutto parcheggio, la quercia rigogliosa dell’infanzia trasformata in legna da ardere, i capelli ogni giorno più grigi, le rughe ogni volta più nette. Cambiano le forme, e le conoscenze franano, cedendo il passo alle paure. Ci vuole, ogni tanto, uno sguardo coraggioso verso le forme mutevoli ed effimere: il cumulo bianco e soffice, nuvola di bel tempo, che vive per dieci minuti, prima di lasciar posto all’azzurro. I cirri sottili, scie di ghiaccio delle correnti a getto, che sembrano immobili e che invece precipitano velocissime nelle correnti a getto d’alta quota. I cirrostrati che disegnano i rari aloni lunari e solari, che sembrano miracoli lontani e misteriosi, e lo sono davvero, nel racchiudere tanta bellezza in pochi istanti di vita. Niente forme permanenti, niente perdurare in eterno, nessuna rassicurazione sulla vita eterna. Solo la virgola bianca in azzurro, per l’eternità dei dieci minuti di incosciente persistenza.
Gavin Pretor-Pinney, Cloudspotting. Una guida per contemplatori di nuvole.
Guanda 2006, pp. 345, € 16,50
trad. F. Oddera
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.