C’è voluto più di un secolo per arrivare a leggere nella nostra lingua uno dei primi romanzi moderni della narrativa nipponica contemporanea, Io sono un gatto, di Sôseki Natsume. Le dimensioni ragguardevoli del testo – più di cinquecento pagine – hanno sicuramente contribuito a renderne antieconomica la traduzione e la pubblicazione, ma alla base vi sono state probabilmente altre considerazioni. Prima fra tutte, si può supporre, il tono assai poco solenne e drammatico della narrazione – paradossalmente più vicino al successivo gusto surrealista di autori russi come Bulgakov che alla «giapponesità» rigida e austera alla quale sono abituati gli appassionati di narrativa nipponica –, e il gusto irriverente e paradossale di Sôseki che non perde occasione per irridere il crescente nazionalismo del paese del Sol Levante. «Io sono un gatto giapponese», ripete periodicamente il protagonista spostando sul piano dell’assurdo l’appassionata retorica patriottica che domina l’ultimo periodo dell’epoca Meiji e le vicende della guerra russo-giapponese. Inconsueta e «sconveniente», infine, la scelta dell’io narrante, un gatto non particolarmente bello, poco dotato come cacciatore, non troppo interessato alle cospecifiche di sesso femminile e assai poco aggressivo ma in compenso capace di complesse riflessioni e considerazioni sulle strane abitudini e le curiose stravaganze degli esseri umani. È grazie al crescente interesse per la letteratura nipponica – senza contare l’altrettanto crescente affezione (con qualche caduta nel feticismo) per i piccoli felini – che possiamo leggere il primo romanzo di Sôseki, a un secolo dalla sua prima pubblicazione. E c’è di che rimanere felicemente sorpresi dalla freschezza e leggerezza dello stile, dalla capacità di rendere con pochi tocchi caratteri e situazioni, dal gusto fintamente meravigliato ma in realtà irridente e complice delle osservazioni del nostro micio senza nome (nessuno gliene ha mai imposto uno), osservazioni che mettono in ridicolo non soltanto il suo «padrone», un insegnante d’inglese pigro, inconcludente e presuntuoso, ma anche i suoi amici e conoscenti, intellettuali di cultura universitaria dagli interessi futili e incostanti. Il micio assiste alle loro confuse e dispersive discussioni commentandole puntigliosamente e traendone di volta in volta insegnamenti e precetti assurdi e contraddittori. Incapaci di comprendere e prendere posizione sulla realtà in rapida evoluzione il Professore e i suoi amici riempiono il loro tempo di inizi di attività destinate a non essere mai concluse, pettegolezzi, piccoli scherzi più o meno ingegnosi, osservazioni altisonanti e interminabili battibecchi dei quali tanto loro quanto il lettore finiscono spesso per dimenticare il motivo. La modernità del nuovo secolo vista attraverso gli occhi di Sôseki – fattosi gatto per esigenze narrative – perde ogni patina di lucente perfezione per rivelarsi un mediocre e confuso carnevale di slogan recitati a ruota libera, affanno, fatica, coazione a comparire, ad apparire, a intraprendere attività e letture che non si riescono ad afferrare. E, ancora, retorica del denaro, del successo, della forza e dell’intolleranza. Un quadro del ventesimo secolo narrato già ai suoi albori e che non verrà mai smentito nei novantacinque anni successivi e, ancor meno, nel secolo appena iniziato. Lo sguardo del gatto di Sôseki non ci ha mai lasciato, in realtà. Con l’inflessibile crudeltà dell’innocenza, il felino osserva con distacco il nostro affanno cercando, senza riuscirvi, di tracciare un percorso delle nostre vite e dei nostri desideri. La follia logorroica e senza fantasia dei personaggi di Sôseki resta uno dei segni del nostro tempo, il marchio dei nostri giorni.
Sôseki Natsume, Io sono un gatto
Neri Pozza, ed. 2009, pp. 512, € 18,00, trad. A. Pastore
Idem, 2010 ed. Beat, pp. 476, € 7,00
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