Un certo giorno Yali, un uomo politico indigeno della Nuova Guinea, chiede all’autore del libro: «Perché i bianchi hanno tutte queste cose [asce d’acciaio, fiammiferi, medicine, ecc.] e le portano qui mentre noi abbiamo così poco?» La domanda naturalmente potrebbe essere formulata in un numero pressoché infinito di altri modi, ad esempio: «Perché Pizarro arrivò in Sudamerica ed uccise l’imperatore Inca Atahualpa e non fu l’Inca ad arrivare in Spagna ed uccidere Carlo V?» oppure «Perché i bantu sloggiarono ad un certo punto i Khoisan da quasi tutta l’Africa meridionale e non successe invece il contrario?». In altre parole: perché (ma forse sarebbe meglio chiedersi come) la storia prossima dell’uomo è costellata di episodi in cui un popolo ne debella altri con relativa, e sembrerebbe quasi logica, facilità, imponendo definitivamente la propria lingua, la propria cultura materiale, la propria organizzazione sociale?
Un interrogativo di questo tipo è decisamente molto più intelligente ed opportuno di quanto a prima vista potrebbe sembrare, ed è al giorno d’oggi di particolare valore. La realtà del nostro pianeta, diviso in un Nord strapotente ed un Sud economicamente, socialmente e culturalmente debolissimo, dimostra a quali differenze di ricchezza e di forza possano condurre le diverse strade intraprese nell’evoluzione sociale dai vari gruppi umani nel corso della loro storia. Questa realtà va compresa, nel suo significato storico, al fine di poterla cambiare ed è giusto interrogarsi sulle cause che l’hanno plasmata; inoltre sul terreno dell’interpretazione di questi processi storici si gioca una battaglia importante contro le posizioni di chi vorrebbe spiegare tutto ciò con le «Attitudini naturali» dei popoli, cioé con le del tutto indimostrate teorie della supremazia intellettuale di una razza sull’altra. Cosa dice il nostro autore sull’argomento? Egli parte da lontano, cioé dalla fine dell’ultima glaciazione, tredicimila anni fa. A quel punto, sostiene, comincia a verificarsi nelle società umane una serie di salti di qualità, tanto sul piano della produzione dei beni (soprattutto, ma non solo, del cibo) quanto, in conseguenza, dell’organizzazione sociale; la nascita dell’agricoltura, la domesticazione di specie animali, la sedentarizzazione, la formazione di un surplus alimentare che consente lo sviluppo demografico, il passaggio dall’organizzazione in bande di cacciatori-raccoglitori a strutture sociali più complesse fino allo stato vero e proprio, la formazione di classi sociali non direttamente coinvolte nella produzione del cibo (e che possono quindi dedicarsi ad attività solo apparentemente parassitarie – governo, burocrazia, esercito, cultura -), sono le principali tappe che segnano lo sviluppo “postglaciale” della specie umana. Ma, e qui sta il punto, i tempi ed i modi con cui questi salti si verificarono, l’estensione e la radicalità dei cambiamenti non furono affatto le stesse nelle differenti società, né questi mutamenti si realizzarono ovunque. Attraverso l’analisi comparata di un certo numero di “casi”, dai Maori ai Bantu, dai popoli amerindi alla Cina, dalle genti della Mezzaluna Fertile ai Polinesiani, Diamond esamina i come e i perché di queste traiettorie storiche e dei tempi del loro svolgersi. Non c’entra l’intelligenza intrinseca delle differenti popolazioni, dice l’autore, ma non c’entra neppure il fatto di aver avuto più o meno tempo a disposizione. L’Africa ne è una prova: nonostante il fatto di essere di gran lunga il continente da più tempo abitato dall’uomo ha raggiunto solo in parte (in tutti i sensi) elevati livelli di organizzazione sociale; ma citiamo anche il caso degli aborigeni australiani: arrivati nel continente almeno quarantamila anni prima di Cristo, dovettero superare bracci di mare piuttosto ampi, anche se, a causa delle glaciazioni, probabilmente non troppo profondi. Ciò richiedeva certamente una certa abilità tecnica nell’arte della navigazione e quindi forse un certo livello di organizzazione sociale. Eppure, una volta sbarcati sul continente, questi popoli non accrebbero praticamente più il loro livello tecnologico e sociale ed anzi in alcuni casi regredirono significativamente. Dove bisogna quindi individuare le ragioni che hanno determinato nella storia dell’uomo uno sviluppo differenziale come quello che conosciamo? La risposta di Diamond è abbastanza precisa (forse troppo, come vedremo): i vari gruppi umani si trovarono ad operare in situazione ambientali (ecologiche in senso proprio) profondamente diverse ed intrapresero quindi strade (di adattamento culturale e sociale) differenti. Un esempio particolarmente significativo che si evince dal volume di Diamond è quello della domesticazione. La stragrande maggioranza delle specie domestiche sono di origine eurasiatica. In particolare, se si considerano le specie da lavoro (e non solo da carne come il pollo, il coniglio o la cavia) emerge che un solo animale (il lama e le sue varietà) fu addomesticato fuori dall’Eurasia (forse due se si sostiene l’origine africana dell’asino domestico). Ciò dipese, secondo l’autore, fondamentalmente dal fatto che determinati popoli in determinate aree ebbero a disposizione specie le cui caratteristiche fisiche ed etologiche le rendevano in un certo senso “preadattate” alla domesticazione; al contrario altri popoli in altri continenti non incontrarono specie siffatte, o ne incontrarono molto poche, o con la caccia ne determinarono l’estinzione (come probabilmente successe in America settentrionale). Non poterono quindi intraprendere la strada della domesticazione animale, o se lo fecero le specie addomesticate mantennero un valore relativamente marginale nell’ambito dell’organizzazione produttiva di queste società. Un ragionamento analogo, seppur più complesso, viene proposto dall’autore per la domesticazione di specie vegetali, cioé per la nascita dell’agricoltura. Cosa significa in fondo tutto questo? Significa che, secondo l’autore, non vi furono popoli che fecero scelte più intelligenti ed altri che ne fecero di meno geniali. Ogni popolo si sviluppò in un certo senso in armonia con le condizioni ecologiche in cui viveva. La scelta di fare l’agricoltore o il cacciatore o il raccoglitore non dipese dalla maggiore o minore lungimiranza di questo o quel gruppo di umani, ma dalla convenienza immediata: si potrebbe facilmente dimostrare che, date determinate condizioni, fare il cacciatore è di gran lunga più conveniente che coltivare e portare al pascolo gli armenti. Il problema è un altro: scelte diverse di produzione del cibo e dei beni portano a risultati profondamente diversi sui tempi lunghi. Non è la stessa cosa organizzarsi in piccole bande indipendenti, con agile organizzazione sociale, scarso accumulo dei beni e divisione egualitaria dei compiti, oppure vivere in villaggi stabili, tendenzialmente a crescita continua, con organizzazione sociale complessa, forte specializzazione nel lavoro e significativo accumulo di beni materiali. In sé tutte e due queste forme organizzative (e le molte intermedie) sono valide e possono garantire, in determinate condizioni ecologiche, la sopravvivenza del gruppo di umani. Il discorso cambia quando gruppi ad organizzazione sociale diversa vengono a contatto. Soprattutto quando uno dei gruppi umani, proprio sotto l’impulso dovuto alla propria organizzazione sociale, “cerca” attivamente il contatto con gli altri gruppi. Interessante ad esempio, anche se probabilmente da approfondire, l’asserzione secondo la quale la domesticazione animale, e quindi la promiscuità con animali, avrebbe reso alla lunga i popoli che la praticano resistenti ai morbi trasmessi dagli animali stessi, mentre i popoli non allevatori verrebbero rapidamente falcidiati dall’incontro con i popoli allevatori che si comporterebbero, volenti o nolenti, da “portatori sani” di quei morbi. Torniamo allora con un esempio, che è anche una risposta, alla questione iniziale. Nel dicembre del 1858 i Maori della Nuova Zelanda occuparono le isole Chatham eliminando in meno di un mese la popolazione di Moriori che vi viveva da secoli. Gli attaccanti, agricoltori ed esperti guerrieri, erano in minoranza ma la loro organizzazione sociale prevedeva e permetteva l’attacco e la vittoria. L’organizzazione sociale – e quindi anche l’ideologia delle vittime – era del tutto differente, tipica dei cacciatori organizzati in bande poco numerose e disperse, e non permise minimamente loro di opporsi allo sterminio.
È una storia affascinante quella dello sviluppo delle società umane, ed estremamente stimolanti sono le questioni che sorgono continuamente nello studio di questa storia. Ciò, assieme alla gradevolezza del linguaggio, alla varietà degli esempi proposti, ad un certo gusto nel raccontare “le storie” dell’uomo, rendono questo volume veramente piacevole. Non è un saggio accademico, si legge senza sforzo, ci si appassiona. Questo naturalmente non significa che la ragione sia automaticamente dalla parte dell’autore. Non sono uno storico né un antropologo e, tutto sommato, non mi sento di addentrarmi nella critica puntuale dei singoli elementi del ragionamento di Diamond. L’autore stesso, onestamente, ricorda le critiche di meccanicità e di “determinismo” che possono essere rivolte alla sua costruzione logica; altrettanto serenamente mi permetterei soltanto di sollevare una questione di ordine generale: lo scopo, dichiarato, dell’autore é di confutare la risposta razzista al quesito che abbiamo indicato all’inizio. Quando si conduce un ragionamento scientifico è un po’ pericoloso sapere già a quale risposta si vuole arrivare, anche se si tratta di una risposta in negativo (cioé a quale risposta non si vuole arrivare). Questo, va detto altrettanto onestamente, non toglie nulla, di per sé, alla validità intrinseca del ragionamento. Tuttavia, nel nostro caso potrebbe forse spiegare quelle forzature che a volte sembra di intravedere nelle maglie del ragionamento di Diamond.
Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie – Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni.
Einaudi 1998, 2000, 2006 – Ed. orig 1997 – pp. 400 €. 13,50
Trad. Civalleri L.
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