Mes chers enfants. Pour lire Saint-Simon à mon âge, il faut avoir lu les Pieds Nickelés à 4 ans!» Parce qu’il y a des gens qui ont commencé à lire à 30-35 ans, mais la lecture, c’est un opium qu’il faut avoir goûté jeune. J’ai appris à lire à 4 ans avec le «Canard Enchaîné![1]
Pierre Magnan è nato a Manosque in Alta Savoia nel 1922 e nei paesi delle Alpi dell’Alta Provenza ha ambientato quasi tutti i suoi romanzi.
Come autore, la sua vicenda è quella tipica dell’outsider letterario: dai tredici anni ai vent’anni lavorò in una tipografia. Il primo romanzo, L’alba insolita, uscì nel 1946 e fu subito notato dal pubblico e dalla critica, ma non gli garantì la pubblicazione dei successivi. Lavorò presso una ditta di trasporti per ventisette anni, continuando a scrivere romanzi rimasti inediti. Licenziato nel 1976 per motivi economici, ha approfittato del tempo libero per scrivere Il sangue degli Atridi, vincendo nel 1978 il premio Quai des Orfvres.
Oggi, in Francia, è un autore di culto, ma ha raggiunto il successo soltanto negli anni Ottanta, con la serie del commissario Laviolette.
Avevo già avuto molti rifiuti per i miei libri. Mi è stato detto che c’era una vicenda in essi e che non era più di moda, che le mie storie ora non interessavano più nessuno. […] Mi sono detto che, dal momento che le mie storie non interessavano più, rimaneva un genere che dipendeva pur sempre da una storia […] il romanzo poliziesco.[2]
Mentre scemava l’effetto trainante del Premio Quai e dopo quattro romanzi con Laviolette, Magnan scrisse questo La maison assassinée (1984), rifiutato dal suo editore di allora, Fayard, a causa del progressivo calo di vendite dei suoi libri. Dopo diversi rifiuti il romanzo fu accettato da Denoël e vinse il premio RTL-Grand public. In seguito il romanzo è entrato a far parte del catalogo di Folio, i tascabili di Gallimard.
Pubblicato in Italia da Voland, Robin e Meridiano Zero, Magnan nel proprio sito si dipinge come «apolitico, asociale, bilioso, agnostico […] afilosofico» con un atteggiamento ruvido e scontroso, per nulla disprezzabile in tempi di tuttologi da diporto e di giallisti che pretendono di svelare il mondo… personalmente ritengo la letteratura di genere adattissima a farlo, ma preferisco scoprirlo da me, pagina dopo pagina, piuttosto che sentirlo dichiarare con enfasi dall’autore di turno.
La casa assassinata è una storia complessa basata su passioni universali. Il prologo ci mostra una sera come tante a La Burlière, la stazione di posta dei Monge. La casa è solida, robusta e destinata a durare, completa di magazzini e scuderie. Il mastro barrocciaio, soprannominato Moungé-l’Uillaou, Monge il fulmine, è un uomo ancora giovane, «piccolo, magro, secco, ma proprio una lama… un furbo… uno che se lo gettavi per aria rimaneva aggrappato al soffitto, da tanto che aveva le dita a rampino… Un… senza-pietà»; vive e lavora nella grande casa insieme alla Girarde, fresca madre per la terza volta, e al vecchio suocero. Monge è un duro, è deciso, pericoloso, per le mani gli passano molti soldi, più di quanti La Burlière possa renderne, e lui sa come investirli e come custodirli. Quella notte, mentre fissa «la sua gente», la moglie che allatta il caquois, il Papé che si dondola sulla vecchia sedia, i ragazzini più grandi che giocano sotto la grande tavola, nella stanza che è insieme cucina, soggiorno e sala da pranzo, l’Uillaou è turbato, gelidamente furioso con la Girarde, perché è convinto che lei lo tradisca. E forse il piccolo che, appena nato, gli è sembrato così estraneo e diverso dagli altri due, è un bastardo… Fuori, qualcuno sta spiando la casa da lontano. Qualcuno aspetta il momento giusto per entrare.
La vicenda di Séraphin Monge comincia ventitré anni dopo, quando – al termine della Grande guerra – il ragazzo torna a Peyruis, unico sopravvissuto alla strage che, in quella notte lontana, ha annientato la sua famiglia. Allevato dalle suore di Carità e poi spedito a combattere per la patria, Séraphin non sa nulla di quella storia. A Peyruis non ha affetti, parenti, ricordi di famiglia, non ha nulla a cui tornare, nulla che, durante la guerra, gli abbia offerto una ragione per sopravvivere.
Ma è sopravvissuto, perché nel suo modo cauto e silenzioso, anche il giovane Monge è un duro. Dalla sua ha la forza di chi non sa e, non avendo niente da perdere, non può essere ferito nell’anima o sorpreso. Ma gli altri, i paesani, ancora ricordano l’orrenda strage compiuta, ha detto la giustizia, da alcuni slavi sbandati, a scopo di rapina. I familiari erano tutti morti sgozzati, solo il caquois era stato ignorato dagli assassini.
E un vecchio, uno di quelli che avevano trovato i cadaveri il mattino dopo, racconta tutto a Séraphin, un po’ per darsi importanza, un po’ impietosito da quel bel ragazzone biondo che non sa di appartenere alla comunità e che ignora tutto dei Monge della Burliére.
Così Séraphin, nel suo modo ostinato e avaro di gesti, adesso ha due ragioni per vivere: spianare La Burlière, cancellare il ricordo del male che vi si è svolto con la forza delle sue braccia. E scoprire la verità, pareggiare i conti. Perché, gli ha spiegato il vecchio, gli slavi sbandati erano stati così stupidi da farsi beccare sbronzi del vino rubato nelle cantine di Monge… Non potevano essere i veri colpevoli.
La vicenda prosegue al ritmo inesorabile di un tragedia greca; Seraphin, cominciando dal tetto, demolisce la Burlière piano dopo piano e già alcuni abitanti di Peyruis temono che trovi ciò che non deve trovare… E mentre il ragazzo si avvicina cauto alla verità, muovendosi tra personaggi forti e scabri come i fianchi delle montagne intorno alla Burlière, qualcuno lo precede sempre, uccidendo uno dopo l’altro i sospettati.
Per me, Magnan è stato una rivelazione: paesaggi e stile scabri, illuminati a tratti dal sole, dal profumo della lavanda, dal bagliore di qualche passione. Il primo nome a cui ho pensato leggendo è stato il Simenon dei Segreti del Cappellaio e di La chiusa, per l’attenzione agli aspetti minuti dell’esistenza, all’intreccio di sentimenti ambigui tra parenti e tra vicini: passioni, desideri leciti e soprattutto illeciti, personaggi comuni resi «speciali» dalle loro ossessioni. Tutto questo c’è anche in Magnan, anche se la sua è la Francia avara delle Alpi provenzali e se il passato che incombe su Séraphin non è quello delle chiuse e dei cavallanti, ma quello dei barrocciai già condannati dalla ferrovia che sta per raggiungere la casa dei Monge.
Ma Magnan ha anche un vivo senso della comunità, in alcuni suoi personaggi c’è un’innocenza ostinata, più forte delle prove che stanno affrontando, che non garantisce loro il successo ma almeno la dignità; il conto che il passato torna a presentare ai vivi di un tempo e ai loro figli non è soltanto peccato, vendetta e odio, è anche giustizia, senso del dovere, disponibilità a sacrificarsi per un bene più grande. Non c’è retorica in questo, semmai la necessità di ripristinare un equilibrio, di riportare ordine nelle storie della gente. E’ per questa loro volontà di fare e di chiedere giustizia che figure di contorno come Marie, Patrice, Rose e il priore, sono indimenticabili almeno quanto l’innocente Séraphin, le sue vittime mancate e i veri colpevoli.
[1] in http://www.critiqueslibres.com/i.php/vinterview/69#top
[2] traduzione del recensore
Pierre Magnan, La casa assassinata
Meridiano Zero, 2001 e 2007, pp. 254, € 13,50
Trad. G. Bongiorno
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