Tutti noi trascorriamo la vita a cercare: cerco di sopravvivere, sta cercando di diplomarsi, è alla ricerca di un lavoro, stai cercando l’anima gemella?, cercano amici, cerchiamo casa… E tutto questo perché cerchiamo – ci arrabattiamo per – essere felici. Per alcuni, però, cercare è una condizione permanente: i ricercatori di professione, gli scrittori, gli investigatori… cercano idee, parole, indizi.
Quasi tutte le storia (quelle avvincenti, almeno) ruotano intorno a una ricerca, anzi una «cerca». Ma in alcuni libri le figure del ricercatore, dell’autore e del detective si ibridano dando luogo a resoconti efficaci e quasi romanzeschi di una ricerca scientifica, a detective story più o meno riuscite, con risultati disuguali che vanno dalla divulgazione scientifica, alla narrativa d’intrattenimento al romanzo sperimentale. Per compire l’ibridazione vanno seguite alcune indicazioni, chiamiamole procedure; non sempre queste «ricette» sono necessarie, non sempre sono sufficienti a garantire la buona riuscita dell’esperimento.
Classe 1927, Mulisch è considerato uno dei migliori autori olandesi, insieme a Hugo Claus e Cees Noteboom (come lui entrati più volte nella rosa dei nomi per il Nobel). La procedura è il mio primo incontro con lui, un incontro impegnativo che mi ha regalato alcune pagine molto belle e qualche perplessità.
Il romanzo è innanzitutto un abile monstrum, formato da tre diversi racconti che una cornice filosofica ispirata alla Cabbalah riesce a racchiudere soltanto in parte. Il tema centrale è la ricerca, condotta nell’interfaccia sottile tra non-vita e vita: la vita imposta alla materia bruta da un rabbino creatore di golem nella Praga del 1592, la vita creata da due coniugi con la ricetta più vecchia del mondo, la vita come procedimento chimico che dà inizio all’evoluzione sulla Terra, replicato da un biologo in odore di Nobel.
Il primo racconto è la storia del rabbino Jehudah Löw ben Bezalel, saggio ed esperto di studi talmudici, indotto suo malgrado a creare un golem per compiacere Rodolfo II, annoiato e depresso collezionista di stranezze. La vicenda è ambientata nel ghetto ebraico, immersa in un’atmosfera fiabesca e misteriosa e percorsa da forze sotterranee contemporaneamente angeliche e sulfuree. La creazione notturna e il doppio pericolo costituito dalla natura semi-vivente del golem e dalla sua inaspettata identità femminile soffiano come un vento tra le righe, sospingendo il lettore a proseguire. Sono pagine belle dal punto di vista formale ed efficaci, una prova narrativa seducente che purtroppo si interrompe improvvisamente per non venir ripresa. Un tiro, questo della storia lasciata a metà, che personalmente ho perdonato soltanto a Calvino e al suo Se una notte d’inverno un viaggiatore.
La seconda storia racconta di uno strano matrimonio fondato sul fatto che i due coniugi non hanno nulla in comune. L’attrazione reciproca si fonda sull’assoluta diversità: Gretta, figlia di uno scultore trotzkista, è appassionata e poco convenzionale, Ferdinand, un ufficiale olandese che ha preso parte alla resistenza, è conservatore, morigerato e con poche e anonime esigenze sessuali, insomma un «pesce freddo». Ma i due si amano ed è proprio per continuare questa scommessa impossibile che lei decide di avere un bambino. Poiché i figli non sono una priorità per lui, occorre farlo derogare, almeno per una volta, dal suo autocontrollo. La notte brava e tempestosa nella quale viene concepito il famoso figlio e il parto successivo, una faccenda da donne nella quale Ferdinand passa da titubante testimone a coprotagonista, non sono soltanto pezzi di bravura: l’identificazione con i due coniugi non è stata facile, eppure ho continuato a leggere, divisa tra stupore e ammirazione, imparando a conoscere a poco a poco il militare tutto d’un pezzo e la sua decisissima sposa fino a che sono diventati parte della grande famiglia di personaggi depositati nella mia memoria di lettore.
Il terzo racconto è la storia del loro figlio Victor, e qui o la bravura di Mulisch non è stata all’altezza delle ambizioni o le ambizioni non sono state all’altezza della sua bravura e della sua sensibilità. Fatto sta che l’autore si è infilato nel vicolo cieco di una «cerca» totale, nella quale il versante scientifico – ricreare in laboratorio l’«eobionte», prototipo di struttura organica precedente la comparsa del DNA – è metafora del versante personale: ricomporre una vita segnata da abbandoni e perdite.
Per circa centocinquanta pagine, Victor, molto consapevole di sé e non sempre simpatico, scrive lettere indirizzate alla figlia ma in realtà dedicate alla moglie che l’ha lasciato, ricapitolando la propria vita scientifica e personale, progettando libri di divulgazione, rievocando viaggi, dibattiti e rivalità scientifiche (il nostro è niente meno che in attesa del Nobel) e citando le proprie preferenze musicali (classiche, ovviamente). Come lettore temo di costituire il target ideale di questa terza storia: una laurea in biologia, una piccola pratica di congressi scientifici, una certa infarinatura di musica classica, una conoscenza decente dei saggi scientifici citati, persino una settimana ad Arles e alcune ore nella vicina necropoli di Les Alyscamps. Insomma, avevo le carte in regola per leggere, l’ho fatto e mi sono annoiata moltissimo.
Che cosa sia andato storto, è difficile dirlo: le pagine suggestive non mancano, i personaggi compiono scelte discutibili ma umanamente comprensibili, il dramma di Victor, realizzato sul piano professionale ma infelice e insicuro dei propri affetti, in debito con la vita di una figlia e di una moglie, è autentico. Ciò che lascia francamente indifferenti è tutto il suo agitarsi a «cercare» di tutto, dalla moglie lontana ai tre fratelli di latte sconosciuti, a un presunto killer del quale ha ascoltato casualmente una telefonata. La «cerca» è una metafora potente, che ha sorretto migliaia di storie e di miti, però nella storia di Victor sembra, più che un’ossessione, un meccanismo progettato a tavolino che scatta a vuoto.
In conclusione non posso che citare una acuta affermazione di Harry Mulisch che, nella cornice, afferma:
Gli scrittori di romanzi […] possono essere suddivisi in scrittori di frasi e scrittori di libri. Nabokov scrisse frasi indimenticabili, Dostoevskij libri indimenticabili.
Ecco, Harry Mulisch è uno scrittore di pagine indimenticabili.
Nel pomeriggio assolato due creature sfidano la calura camminando lungo i binari della linea Brighton-Eastbourne. Passeggiare lì è molto pericoloso, il vecchio signore che li guarda lo sa benissimo, se esita ad avvertirli è per due motivi importanti: la prima è che, a novant’anni e passa, alzarsi dalla poltrona davanti alla finestra è una vera impresa, l’altra è che… santo cielo, le creature sono un ragazzino di forse nove anni e un pappagallo, che gli sta appollaiato sulla spalla… Una vera stranezza e, tanto tempo prima, quando non era ancora un vecchio e godeva di credito in certi ambienti, il vecchio signore andava a caccia proprio di stranezze.
Ormai il vecchio signore è stato dimenticato e tra i paesani quasi nessuno sa che, nel piccolo cottage vicino a un prato pieno di arnie, vive proprio… Oh, beh, è passato davvero tanto tempo, il vecchio non è più tanto giusto di testa, e poi i bravi inglesi hanno altro per la testa, nel 1941.
Ma il vecchio a suo tempo faceva scintille, faceva i miracoli, era un mago. E lo sapevano in tanti. Non che lui si curasse di dirlo in giro, ma c’era chi raccontava per lui. Adesso invece… Così è proprio un’idea balorda, quella dell’ispettore Bellows, di andare a consultare il vecchio quando scompare il pappagallo e compare un cadavere. Questo è il parere dell’agente investigativo Quint, convinto che il caso sia il solito squallido omicidio con rapina. Il rapinato è il morto, naturalmente, derubato del volatile che aveva a sua volta sottratto al bambino… Insomma, una storia davvero cretina.
Ma il vecchio, con la fortunaccia di sempre, era seduto nella poltrona davanti alla finestra proprio quel pomeriggio afoso, a guardare il bambino muto e il pappagallo troppo loquace…
Travestito da indagine, questo è l’atto d’amore di un lettore affezionato. È l’ultima, inaspettata avventura di un vecchio, amatissimo investigatore privato inglese, sopravvissuto al proprio autore e ormai più famoso di lui, tanto da aver ricevuto in regalo dai suoi fan scrittori decine di storie «impossibili».
Se non avete ancora capito quanto speciale sia il vecchio signore, peggio per voi, altre possibilità non ve ne dò, e non ve concede Chabon, che rievoca l’anziano investigatore, il suo spirito beffardo, la sua passione fredda e razionale e il suo assurdo amore per le api, senza mai pronunciare il suo nome. Così chiunque – anche chi nutre una immotivata diffidenza verso i polizieschi e i gialli – potrà gustare senza ombre la storia di quest’ultima ricerca, non troppo consistente dal punto di vista del genere, ma delicata, divertente, commovente dal punto di vista narrativo e ricca di buoni personaggi di contorno: il reverendo Paniker e signora, il pappagallo Bruno, chiacchierone ma capace di fare tesoro delle esperienze accumulate nella sua vita longeva, e Linus, il bambino ebreo che ha scampato il lager.
Un incubo ricorrente induce un’anziana scrittrice ungherese a ripercorrere il complesso legame stabilito in passato con Emerenc, la vecchia domestica-governante che si è presa cura di lei e del marito.
Il filo dei ricordi si snoda lento, minuzioso come una procedura d’indagine, rievocando la donna, le sue frasi scarne, i suoi gesti sempre appropriati, i suoi improvvisi momenti di furore. Alta, segaligna, di età indefinibile, la vecchia Emerenc è forte come un uomo e sembra non dormire mai: segue la portineria del condomino dove abita, si divide tra numerose famiglie, dispensa assistenza ai malati, non si nega a chi ne ha bisogno; tutti la rispettano, persino i poliziotti che ha più volte rimesso al loro posto, infischiandosene di tutte le autorità che si sono susseguite nei decenni e della sicurezza dello Stato. A Emerenc non importa di nessuno, eppure ha rischiato la vita durante e dopo la guerra, prima per nascondere ebrei e russi ai tedeschi, poi per nascondere ai russi soldati tedeschi in fuga, infine «per salvare spie» ricercate dal regime comunista. Le ideologie scivolano su di lei, a nulla e a nessuno è disposta a credere, se non al bisogno immediato, al dolore, ai pochi gesti degni che tutti, anche i peggiori di noi, talvolta compiamo. Emerenc odia il potere e chi lo esercita, fosse pure la persona più onesta del mondo, semplicemente perché il potere è sempre «contro», sempre «dall’altra parte». Nemmeno a Dio crede la vecchia, ne ha viste troppe in vita sua, e meno che mai ai devoti borghesi che, invece di lavorare per vivere, vanno al tempio a biascicare preghiere. Se il dio di Emerenc esistesse (ma è altamente improbabile), se ne infischierebbe dei digiuni e dei riti puntigliosi che la scrittrice impone a se stessa e al marito per celebrare la Pasqua.
Compassionevole ma mai pietosa, la vecchia usa la lingua come una spada e le sue dichiarazioni sono dure come sentenze, eppure…
Quella donna era priva di coscienza patriottica, e di qualunque altra cosa, ma dietro una spessa coltre di nebbia c’era un’anima che brillava luminosa.
Emerenc, che pronuncia dichiarazioni degne dell’anticristo, è naturalmente buona, per molti di noi, comrpesa la scrittrice, non è così:
… io, invece, mi ero educata a esserlo, mi ero obbligata col passare del tempo a rispettare alcune norme etiche [… la mia morale non era altro che disciplina, il risultato dell’allenamento al quale mi avevano sottoposto il collegio, la scuola, la famiglia.
Il duro allenamento a rispettare pochi, fondamentali principi etici è la sorte comune di tutti gli umani: solo dopo aver imparato a farlo, si può giungere, nei pochi momenti decisivi della vita, alla consapevolezza che occorre infrangere quei principi per rispettarne altri, di livello superiore. Qualcuno di noi (i credenti li chiamerebbero santi) compie questo lungo cammino in un solo passo, per tutti gli altri il tempo è l’unico insegnante.
Harry Mulisch, La procedura
Rizzoli, 2005, pp. 235, € 16,00
trad. Laura Pignatti
Michael Chabon, Soluzione finale
Rizzoli, 2005, pp. 166, € 12,00
trad. Luciana Crepax
Magda Szabó, La porta
Einaudi 2005, pp. 248, € 17,00
trad. Bruno Ventavoli
idem, ET scrittori, € 11,00
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