L’affermarsi di un mondo unipolare ha più rimosso che risolto il problema degli armamenti atomici e più in generale di tutto ciò che rientra (tecnologie, ricerca, investimenti) nella definizione di «nucleare».
Sono passati ormai sessant’anni dal primo (e finora fortunatamente unico) impiego bellico della bomba atomica, ma il senso di ciò che è avvenuto sembra, con il passare degli anni, farsi meno limpido e concreto, perdere sostanza, quasi si tratti di un tema da lasciare agli storici. Eppure questo secolo trova nello sterminio razziale e politico di ebrei, tzigani, omosessuali e antifascisti e nel bombardamento di Hiroshima e Nagasaki i due fenomeni che più profondamente ne descrivono dinamiche e pulsioni, che meglio di altri disegnano i limiti del pensiero borghese che l’ha dominato, due eventi accomunati dalla sostanziale inadeguatezza della parola a colmare lo spazio aperto tra realtà e ricordo.
Narrare ciò che non può essere narrato è la sorte non solo degli autori giapponesi di Genbaku Bungaku [Letteratura sulla bomba], ma qui in Europa di tutti coloro che si sono sforzati di descrivere l’orrore quotidiano dei campi di sterminio. E il raccontare di fronte a una sofferenza tanto superiore alle categorie umane si perde, esita, si scioglie in momenti più o meno cruenti o raccappricianti, si disperde in particolari, minuzie, talvolta struggenti, talora grottescamente comiche, che assediano l’Evento, ne disegnano i contorni senza riuscire a penetrarvi.
All’interno di queste coordinate sta il libro di Ibuse Masuji, un racconto quanto più possibile corale, nitido e scarno come può esserlo una cronaca fedele e attenta, ma in grado di raffigurare solo per vie traverse, per approssimazioni.
Il titolo del libro, Kuroi Ame [Pioggia nera] conseguenza del fall-out atomico, non si limita a isolare un momento vissuto dalle vittime del bombardamento, ma definisce con precisione, unendo alla parola pioggia – simbolo di purezza della tradizione Shintô – il nero della morte, il senso di un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose, «… la pioggia nera è una contraddizione del ciclo biologico, suona come una violenza verbale alle leggi della natura…» (dall’introduzione di L. Bienati).
L’autore ha scelto un accorgimento formale per rievocare l’esperienza di Hiroshima: racconta della nipote del protagonista, Yasuko, che non riesce a trovare marito perché ritenuta vittima degli effetti delle radiazioni. Di fronte a un’ennesima proposta di matrimonio ritirata lo zio della giovane Yasuko decide di utilizzare il diario della nipote come prova della mancata esposizione. E nel ricopiare il diario di lei decide di accludere per maggior verosimiglianza anche il proprio.
Ma con il procedere della narrazione il pretesto della copiatura del diario mostra il proprio limite di artificio, e mentre il diario si fa incalzante, drammatico, le interruzioni al presente del testo suonano quasi moleste, tanto che è l’autore stesso a renderle sempre più brevi, appena accennate.
Colpisce il tono dimesso, quasi ordinario con il quale vengono descritte le vicende degli hibakusha [i sopravvissuti] e le loro sofferenze, non facili da immaginare, il degrado immediato che si accanisce sui comportamenti e sulle dinamiche sociali, riducendole a un insieme di pochi gesti e poche parole nei quali si ritrovano insieme grottescamente deformate le regole quotidiane del vivere e la nuova urgenza di salvare se stessi a ogni costo. Non manca certo la solidarietà, né l’ansia di comunicare, di ricostruire, spesso più vicina, quest’ultima, a una pulsione suicida, tanto da spingere uomini moribondi a tentare di ricostruire muri, sgomberare dai calcinacci i resti della propria casa o rendere nuovamente agibili ponti e vie.
Ma la condizione prevalente è di una rassegnata sofferenza, un abbandonarsi nell’attesa di scomparire per sempre. Il mondo quotidiano nel diario di Shizuma, sia pure nelle difficili condizioni belliche, ha improvvisamente perso consistenza e il nuovo mondo che lo ha sostituito non sembra più possedere regole intelleggibili: è il mondo dei mukurikokuri, termine indicato per designare i mostri per spaventare i bimbi, un mondo dove l’Uomo Nero e il Babau sono divenuti reali, privi delle caratteristiche affettuose legate al ricordo e carichi della oscura malignità che l’età infantile attribuisce loro.
Non stupisce l’insistere del racconto sul cibo, sul prepararlo, raccoglierlo, consumarlo, su sapori, consistenze, sostanza. Quando il protagonista si muove per attraversare la città distrutta, ne porta sempre con sé piccole quantità, e si preoccupa di segnalarlo, quasi fosse rimasto solo quello a designare una condizione di realtà, un legame per quanto debole con il mondo.
Uguale funzione sembra avere il lavoro e la fabbrica.
Sono molti sono gli operai e gli impiegati che all’indomani del bombardamento atomico raggiungono il proprio posto di lavoro nella speranza di riprendere la propria attività. Facile ironia si può fare sugli operai giapponesi, ma si tratta di un umorismo fuori luogo: basti ricordare la difesa delle fabbriche da parte degli operai italiani nel 1945. La realtà che si impone con evidenza è la necessità, tanto forte da emergere anche in quei momenti, di ritrovare la definizione di stessi data dal lavoro, e insieme ritrovarsi nel luogo deputato alla socialità quotidiana: la fabbrica, aspetto questo che dovrebbe indurre a riflessioni meno scontate sulla crisi e sul lavoro come definizione di sé piuttosto che come occupazione.
Sorte opposta sembra aver colpito il sesso, semplicemente scomparso dall’orizzonte della realtà.
La nudità sembra essere una condizione normale per i sopravvissuti, ma si tratta di uno stato che evoca l’essere inermi, indifesi, che denuncia la fragilità dell’essere umani. «… ogni desiderio sessuale è scomparso…» nota Shigematsu Shizuma già alcuni giorni dopo il bombardamento e il lettore ne prende coscienza bruscamente, scoprendo che la frattura nella realtà è ben più ampia di quanto appariva.
Ed è proprio questo elemento di vuoto, di allucinata frattura dell’ordine sociale e naturale che rimanda a uno degli autori più peculiari della fantascienza anni Sessanta, James Ballard. Il ciclo di romanzi scritto dall’autore britannico incentrati su un evento catastrofico di dimensioni planetarie è stato uno dei pochi tentativi (riusciti) di rendere il frantumarsi dell’ordine naturale e insieme il disperdersi dell’individualità – letteralmente dell’anima – al di fuori delle coordinate sociali consuete.
Sia per Ballard sia per Masuji, originariamente autore di narrativa fantastica, al centro, comunque inattingibile e incomprensibile sta l’Evento: in questo caso la Bomba e l’intreccio impossibile da dipanare di sofferenze e dolore, che non hanno avuto fine all’indomani del bombardamento e che l’autore giapponese ha cercato di raccontare giustapponendo frammenti di vicende personali, per sfuggire all’anonimo connesso alla sciagura collettiva, anonimo che finisce per dividere piuttosto che moltiplicare la compassione, ovvero la capacità di patire insieme a coloro che sono colpiti.
Uguale sforzo ho trovato nelle pagine di molti che hanno raccontato dei campi di sterminio: lo stesso pudore, lo stesso ritegno nei particolari e nel tono.
Un’ultima considerazione sulla cura dell’edizione italiana, testimoniata dall’ottima prefazione a cura della traduttrice e dall’apparato di note che arricchisce il volume. Non si tratta di dati scontati, ma di una scelta di rispetto e considerazione per il lettore che rischia di diventare rara presso non pochi editori italiani.
Ibuse Masuji
La pioggia nera
Marsilio 1993, 2005, ed. or. 1965-66, pp. 407, € 19,00
a cura di Luisa Bienati
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