Dopo quella di E morì a occhi aperti, Meridiano Zero propone una seconda edizione di questo strano romanzo della serie della Factory. Strano non tanto per il contenuto decisamente hard e nero al quale i lettori di Raymond sono abituati – o forse dovrei dire «assuefatti» – quanto per il tono, sottilmente differente da quello del romanzo precedente e da Il mio nome era Dora Suarez. Se infatti nel primo prevaleva una spinta morale talvolta sconfinante in un moralismo un po’ sterile e nel secondo una pietas che dalla vittima si estendeva sino all’orripilante ma pur sempre umano assassino, in Aprile è il più crudele dei mesi, mescolata all’abituale etica dell’autore, si respira un’ironia ambigua, insolita nella narrativa di Raymond.
Il protagonista è sempre lui, il sergente insofferente della gerarchia della sezione Delitti Irrisolti, quella dove finiscono tutti gli omicidi più sporchi, che nemmeno le pagine di nera dei quotidiani più triviali sono disposti a ospitare per più di qualche giorno. Chi lavora alla Irrisolti non diviene famoso, non finisce sotto i riflettori, non fa carriera; esattamente ciò che vuole il sergente che, inaridito da un passato di perdite irrimediabili, non spera nel futuro e vive in un presente grigio; ammesso che esista un «male» compiuto dagli umani ma in qualche misura più grande di loro, il sergente trova sollievo nel contrastarlo, nel cancellarne un po’ dal mondo. Del successo, della carriera, dei gradi non gliene frega niente.
Piantagrane, sincero sino alla brutalità, asociale, perseverante fino al fanatismo ma sensibilissimo per natura al «male», il sergente entra sempre in una strana, repellente sintonia con gli assassini più disgustosi, ne annusa l’usta, questo ci dice Raymond e spesso riesce a farcelo credere. Anche in questo romanzo il detective ha anche fare con un omicidio che ha dell’incredibile: per essere certo di cancellare ogni prova e ogni indizio dell’identità del morto il killer lo ha tagliato a pezzi, bollito e sistemato ordinatamente in bella vista in cinque sporte di plastica: la spesa macabra di un pazzo amante dell’ordine, la firma di un «mostro» abile, freddo, molto intelligente e completamente squilibrato. Mancano le prove, ma gli informatori esistono per qualche cosa, no? Presto il sergente è in grado di farsi un’idea dell’accaduto e anche di individuare un possibile colpevole; il resto sarebbe «normale» routine, se il sergente fosse il solito bravo poliziotto, ma…
Come in Dora Suarez e, in maniera molto meno convincente, in E morì ad occhi aperti, il sergente risolverà il caso entrando in risonanza con il killer; la vicenda si complica sconfinando mescolando spionaggio e corruzione politica, ma, in definitiva a sedurre il lettore è il rapporto personale sempre più vischioso che lega l’assassino e il detective e che scivola curiosamente dal disgusto a una riluttante capacità di prevedere, a una stupita possibilità di capire, a una inammissibile, ma non impossibile, forma di «ascolto» dell’altro. La «stranezza» di cui parlavo all’inizio, è proprio questa trasformazione, questo passaggio dalla facoltà di fiutare il male all’accettazione – temporanea – del «malato» come «male minore» rispetto a mali più meschini, meno grandiosi, e quindi peggiori. La sorpresa del lettore (o almeno la mia) è di tipo narrativo e non morale: la transizione NON coglie di sorpresa il sergente che, pur abituato a interrogarsi su tutto, non pare sentire il bisogno di rifletterci sopra.
Chissà, forse ha ragione lui e chi legge, invece di nascondere il proprio malessere dietro critiche letterarie, farebbe meglio ad abbandonarsi alla sua stessa riluttante empatia verso l’orrendo ma sicuramente originale killer.
Derek Raymond
Aprile è il più crudele dei mesi
Meridiano Zero, 2004, ed. or. 1985, pp. 250 € 13,50
Trad. Filippo Patarino
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