Magda Szabó
La porta
Einaudi
€ 10,50
trad. di B. Ventavoli
Un incubo ricorrente induce un’anziana scrittrice ungherese a ripercorrere il complesso legame stabilito in passato con Emerenc, la vecchia domestica-governante che si è presa cura per molti anni di lei e del marito.
Il filo dei ricordi si snoda lento, minuzioso come una procedura d’indagine, rievocando la figura della donna, le sue frasi scarne, i suoi gesti sempre appropriati, i suoi improvvisi momenti di furore. Alta, segaligna, di età indefinibile, la vecchia Emerenc è forte come un uomo e sembra non dormire mai: segue la portineria del condomino dove abita, si divide tra numerose famiglie, dispensa assistenza ai malati, non si nega a chi ne ha bisogno; tutti, nel quartiere di Pest dove vive, la rispettano, persino i poliziotti che ha più volte rimesso al loro posto, infischiandosene di tutte le autorità che si sono susseguite nei decenni e della sicurezza dello Stato. Emerenc aiuta tutti e sembra non amare nessuno, quando ha finito il suo lavoro si rintana in casa e chiude fuori il mondo; in caso di necessità riceve «nell’atrio» e nessuno oserebbe pretendere di entrare.
Emerenc non crede a nessuno eppure ha rischiato la vita durante e dopo la guerra per nascondere prima ebrei e russi ai tedeschi, poi soldati tedeschi in fuga ai russi, infine «spie» ricercate dal regime comunista; le ideologie scivolano su di lei, a nulla e a nessuno è disposta a credere, se non al bisogno immediato, al dolore, ai pochi gesti degni che tutti, anche i peggiori di noi, talvolta compiamo. Emerenc odia il potere e chi lo esercita, fosse pure la persona più onesta del mondo, semplicemente perché il potere è sempre «contro», sempre «dall’altra parte». Nemmeno a Dio crede la vecchia, ne ha viste troppe in vita sua, e meno che mai ai devoti borghesi che, invece di lavorare per vivere, vanno al tempio a biascicare preghiere. Se il dio di Emerenc esistesse (ma è altamente improbabile) non starebbe al tempio ma accanto alla donna stanca della vita che la vecchia ha aiutato a morire e se ne infischierebbe dei digiuni e dei riti puntigliosi che la scrittrice impone a se stessa e al marito per celebrare la Pasqua.
Compassionevole ma mai pietosa, la vecchia usa la lingua come una spada e le sue dichiarazioni sono dure come sentenze; non si aspetta nulla da nessuno ma è disposta ad accettare gli altri, talvolta ad amarli, per ciò che sono, a salvare tutti – amici, nemici, santi e dannati –
semplicemente perché chi è perseguitato deve essere salvato […] Quella donna era priva di coscienza patriottica, e di qualunque altra cosa, ma dietro una spessa coltre di nebbia c’era un’anima che brillava luminosa». Emerenc, che pronuncia dichiarazioni degne dell’anticristo, è naturalmente buona, «io, invece, mi ero educata a esserlo, mi ero obbligata col passare del tempo a rispettare alcune norme etiche [… la mia morale non era altro che disciplina, il risultato dell’allenamento al quale mi avevano sottoposto il collegio, la scuola, la famiglia.
Il duro allenamento a rispettare pochi, fondamentali principi etici è la sorte comune di tutti gli umani: solo dopo aver imparato a farlo, si può giungere, nei pochi momenti decisivi della vita, alla consapevolezza che occorre infrangere quei principi per rispettarne altri, di livello superiore. Qualcuno di noi (i credenti, forse, li chiamerebbero santi) compie questo lungo cammino in un solo passo, per tutti gli altri il tempo è l’unico insegnante.
Non so ancora se vorrei conoscere una «mia» Emerenc, se saprei ingoiare i suoi modi bruschi, le sue provocazioni, la sua bontà dura e coerente. Di sicuro leggerò il prossimo libro della Szabó che Einaudi (spero) sceglierà di pubblicare.