Non è segnato sulle carte geografiche, Abacrasta, e nemmeno è possibile trovarlo nelle enciclopedie.
Tra gli abitanti dei paesi vicini (Melagravida, Ispinarva, Oropische, Piracherfa e Orotho), Abacrasta è famoso come «il paese delle cinghie». La nomea non si riferisce a un qualche primato nella lavorazione artigianale del cuoio e delle pelli. Tutt’altro: il fatto è che «ad Abacrasta, di vecchiaia non muore mai nessuno». Gli uomini del paese, vecchi e giovani, ad un certo punto della loro esistenza sentono la «Voce» che li chiama: «Ajò! Preparati, che il tuo tempo è scaduto». Al richiamo, tutti ubbidiscono immediatamente: «qualcuno si spara, si svena, si annega, ma pochi, molto pochi». Perlopiù, gli uomini di Abacrasta scelgono di impiccarsi con la cinghia dei loro pantaloni: agli alberi, alle travi delle soffitte, ai ganci delle officine, alla ringhiera delle scale… Allo stesso scopo, «le donne usano la fune».
Questa «maledizione» dura da secoli, dalla notte dei tempi, fin da quando un certo Eracliu Palitta è arrivato d’oltremare in Sardegna, nell’interno della Sardegna, ed ha fondato il paese.
La catena infinita di suicidi si interrompe solamente quando nel villaggio arriva Redenta Tiria, una misteriosa vecchia cieca e scalza, dai capelli neri e lunghi, lucidi come un’ala di corvo. Redenta ha la magica capacità di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, ogni volta cioè che uno degli abitanti di Abacrasta sta per annodarsi la cinghia al collo. La vecchia riesce sempre, con poche ma efficaci parole, a convincere l’aspirante suicida a rinunciare all’insano proposito, a rimettersi la cinghia ai calzoni e, tutto sommato, a trovare qualche buona ragione per fare pace con la vita e continuare a tirare avanti.
È questa, in poche parole, la cornice che tiene insieme e inquadra i vari episodi che compongono il romanzo di Salvatore Niffoi.
Ogni capitolo de La leggenda è dedicato, infatti, a un abitante di Abacrasta. Le vicende ambientate prima dell’arrivo di Redenta Tiria si concludono col suicidio del protagonista; quelle successive presentano, come già detto, un lieto fine.
Insomma, più che di un romanzo si potrebbe parlare, a ben vedere, di una raccolta di racconti. In queste «novelle», ciascuna contenuta nello spazio di pochissime pagine, l’autore delinea la storia di una vita. Si tratta di esistenze tragiche o più spesso grottesche, in bilico tra il dramma esistenziale e la farsa paesana. Sono storie di corna e di delitti d’onore, di furti di bestiame, di faide e di «balentes», di aspirazioni artistiche naufragate e di monacazioni forzate, di vecchie prostitute in cerca di riscatto e di sindaci che si giocano alle carte le varianti al piano regolatore…
Niffoi racconta. Cosa volete che ne sappiano, in Barbagia, delle discussioni infinite sulla morte del romanzo e sull’impossibilità della narrazione nella letteratura contemporanea? Cosa volete che gliene importi? Niffoi narra, eccome: costruisce situazioni, delinea ritratti, mette in scena anime… Il risultato finale è un Cent’anni di solitudine che profuma di mirto oppure, se volete, un poema epico della Sardegna profonda. Esagerato? Vediamo: ho definito poco fa La leggenda come una raccolta di racconti. Ebbene, dico esattamente la stessa cosa se affermo che il libro ha un andamento rapsodico, come i poemi degli antichi aedi e cantastorie. Gli eroi di questo poema ad episodi sono scolpiti a tutto tondo, proprio come i personaggi della grande epica, e con ammirevole economia di tratti. Dominano i sentimenti elementari, le reazioni orgogliose e istintive, la fedeltà ai valori patriarcali. Si legge di silenzi ed incomprensioni che si prolungano per decenni e si tramandano da una generazione all’altra. La partita, in queste pagine, si gioca intorno ai temi eterni, quelli veramente importanti: la morte, la vita, il sesso, il sangue, quello versato e quello che passa dai padri ai figli, il rapporto dell’uomo con la terra, con gli animali, con l’acqua e il vento, con il cibo. Nella [i ]Leggenda si tratta di gente che, come gli eroi di Omero, ha appetiti robusti, gente che dopo la mietitura festeggia con «maccheroncini tondi tirati a mano, conditi con sugo di pecora, carne arrosto e in cappotto, formaggio marcio, cipolle crude, pomodori d’orto e vino nero a fiumi», mentre, altrove, un vecchio possidente si lamenta perché «la sera non lo digerisco mai il sanguinaccio di pecora con la menta puleju»…
E così via, per pagine e pagine che non saziano mai, piene come sono di fatti, persone, emozioni e sentimenti.
Salvatore Niffoi
La leggenda di Redenta Tiria
Adelphi
€ 14,00
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