Il dottor Hans Kuperus – 45 anni, sposato e senza figli – è un abitudinario. Ogni primo martedì del mese parte da Sneek, la cittadina della Frisia dove vive, e raggiunge Amsterdam, dove partecipa alla riunione dell’Associazione di Biologia, dorme presso la cognata e il giorno dopo torna a casa. Ma il primo martedì di gennaio interrompe il rito: esce dalla stazione, acquista una pistola, non si fa vedere dalla cognata e all’Associazione, trascorre qualche ora in un cinema, poi, con un giorno di anticipo sull’abituale tabella di marcia, prende il treno per Enkhuizen, sale sul traghetto sullo Zuyderzee, sollevando il blando stupore dello steward, e prende il treno per Sneek. Ma Kuperus non è in anticipo, bensì in ritardo di un anno, dal giorno in cui ha scoperto che la moglie Alice lo tradisce, ogni primo martedì del mese, con il conte de Schutter, rentier e seduttore riconosciuto di Sneek.
Il signor de Schutter […] era membro dell’Accademia del Biliardo, come Kuperus. Ne era addirittura il presidente, mentre nell’ultima assemblea Kuperus era stato nominato solo commissario […] Aveva la stessa età di Kuperus, quarantacinque anni, ma nonostante i capelli brizzolati ne dimostrava trentacinque […] parlava francese, inglese e tedesco, e aveva viaggiato in tutto il mondo […] Schutter era consigliere comunale […] aveva una barca ai Laghi […] aveva labbra sottili che quando sorrideva gli davano un’aria di superiorità…
Schutter, l’eccezione che conferma la regola, è l’unico a cui Sneek conceda una pessima reputazione, l’affascinante pecora nera i cui difetti fanno sognare le signore e danno ai loro mariti il brivido ambiguo di sparlarne con invidia, il libertino che tutti vorrebbero essere e che nessuno può diventare per preservare l’ordine del mondo. Kupérus lo detesta con tutto il cuore e organizza la vendetta.
Approfittando della solita breve sosta del treno in aperta campagna, il dottore scende non visto e raggiunge il capanno di caccia di Schutter. Qui spia gli amanti concedersi quei piaceri diventati abitudine, li uccide e getta i loro corpi nelle acque gelide di un canale. Poi rientra a Sneek, comportandosi come ogni mercoledì.
Tutto è normale all’Onder de Linden il caffé dove i notabili cittadini ogni sera giocano a bigliardo e bevono l’aperitivo. Gli amici salutano Kuperus senza commentare il suo anticipo di un giorno, perché il medico è talmente abitudinario che, in caso di irregolarità, dubiterebbero prima di loro stessi. Poi, il dottore rientra a casa e apprende da Neel, la domestica, che la moglie è partita all’improvviso per accudire una vecchia zia ammalata. Fin dalla prima sera Kuperus infrange un’altra regola portandosi a letto Neel. Nei giorni seguenti, quando la zia nega di aver visto la nipote, i concittadini ritengono la sparizione contemporanea di Alice e del conte una fuga d’amore e apprezzano la dignità e la riservatezza del povero marito tradito. Scomparso il vero Presidente, l’Associazione del Biliardo chiama Kuperus a sostituirlo.
L’omicidio trasforma lentamente Kuperus che diventa brusco e quasi brutale con i pazienti, ed esibisce la relazione con Neel quasi volesse attirare ad ogni costo l’attenzione della comunità; il tradimento e l’anno trascorso a spiare gli amanti l’hanno allontanato dal piccolo mondo che un tempo si faceva bastare, rivelandogli la grigia meschinità dei compaesani; persino i due amici più stretti ora gli paiono sgradevoli e pettegoli.
Al disgelo i cadaveri dei due amanti vengono ritrovati e la gente comincia a sospettare di Kuperus: dapprima si limita a lanciargli strane occhiate, poi comincia a disertare il suo studio, infine giunge il suggerimento cortese ma esplicito dell’amica pettegola: meglio partire, lasciarsi alle spalle una così brutta esperienza, e cercare una giovane vedova disposta a prendersi cura di lui.
Ormai senza pazienti, Kuperus riempie il tempo libero di nuove abitudini che hanno come denominatore l’esibizione del disprezzo verso la morale cittadina; nonostante questa sorta di ribellione, però, il medico non sa elaborare un nuovo sistema di valori e resta a metà del guado, ricostruendo pateticamente la recita coniugale di un tempo con una Neel distaccata che aspetta pazientemente la conclusione.
Kuperus è un altro dei «mostri» quotidiani di Simenon, quietamente spaventosi, superficiale e privi di immaginazione, vittime e complici di una rete di perbenismo e banalità domestica, aguzzino per astio e non per passione.
La mia «passione» per Simenon, soprattutto quello dei romanzi difficili (come lui li definiva), il mio bisogno di leggerne almeno uno ogni anno, provando per i protagonisti una sorta di comprensione orripilata e opprimente, è restata a lungo un mistero. Quest’anno, però, ho avuto la fortuna di leggere due interviste rilasciate dall’autore a distanza di più di vent’anni e un articolo illuminante che mi hanno aperto gli occhi, dimostrandomi una volta di più che si può essere contemporaneamente scrittori lucidissimi e persone insopportabili.
Nella prima intervista [1] – che risale al 1955, il periodo americano di Simenon – l’autore riflette sulla scrittura, illustra i suoi esordi sulle pagine di Le Matin. Colette, allora caporedattrice della sezione letteraria, criticò i suoi racconti perché troppo letterari. Simenon ne ricavò un insegnamento a cui si attenne quasi sempre:
Hai ottenuto una frase meravigliosa – tagliala. Ogni volta che trovo una cosa del genere in uno dei miei romanzi la devo eliminare.
Simenon offre anche una spiegazione di ciò che spinge tanta gente a leggere le sue opere:
la gente ha il terrore della grande organizzazione all’interno della quale sa di essere solo un piccola parte, leggere un certo tipo di romanzi è un po’ come spiare dal buco della serratura per vedere cosa fa e pensa il vicino di casa – ha anche lui lo stesso complesso di inferiorità, gli stessi vizi, le stesse tentazioni?
E, secondo Simenon, che cos’è un ‘opera «commerciale»?
La differenza maggiore sta nelle concessioni, Scrivendo per un qualsiasi scopo commerciale devi necessariamente scendere a patti […] Con l’etica. Forse questa è la cosa più importante. Non puoi scrivere nulla di commerciale senza accettare un codice di qualche tipo. C’è sempre un codice – a Hollywood, come in televisione o alla radio.
La seconda intervista [2],parte da un commento a Memoire intimes, pubblicato nel 1981 nel quale lo scrittore racconta la propria verità sul suicidio dell’amatissima Mary Jo, l’unica figlia. Le risposte di Simenon esibiscono le sue tante contraddizioni: la passione per il successo e per il lusso, il desiderio di acquisire fama e onori e suggeriscono quanto possa essere stato difficile essere figlia (ma anche madre e moglie) di un tale mostro sacro pieno di sé. Alle contestazioni corte si ma stringenti dell’intervistatore, Simenon replica colpo su colpo, giustificando il proprio tenore di vita e le propri frequentazioni come curiosità da scrittori, nega di aver mai ambito al Nobel e di essere stato un padre ingombrante, Mary Jo si è suicidata perché era fragile, i tre figli maschi non l’hanno fatto. Solo quando si parla della scrittura, torna il Simenon del 1955 e svela ciò che un lettore vuole sapere di lui, altrimenti è un uomo triste e anziano in cerca di alibi.
Poiché mi basta conoscere l’umanità di Simenon attraverso i suoi libri, ho fatto tesoro di alcune «rivelazioni»:
ecco come «pesca» nella memoria e sintetizza i personaggi:
Non ce n ‘è uno [romanzo] in cui parli di un personaggio che non abbia conosciuto. Non sempre il medesimo, talvolta erano tre, quattro personaggi che ho riunito.. Li conoscevo molto bene, conoscevo perfettamente lo sfondo. Non ho mai inventato uno sfondo. Mai inventato un’atmosfera, come dicono i critici. Queste famose atmosfere sono dentro la mia memoria.
E come nascono i suoi romanzi «difficili», ovvero quelli non di genere come la serie di Maigret.
Io sono un istintivo, non sono affatto un intellettuale, Non ho mai pensato un romanzo, ho sentito un romanzo. Non ho mai pensato un personaggio, ho sentito un personaggio. Non ho mai inventato una situazione, la situazione è venuta mentre scrivevo un romanzo ma io non sapevo affatto dove il mio personaggio mi avrebbe condotto. E io vivevo intanto, circa undici giorni, alla fine sette, nella pelle del personaggio.
Ma la grande rivelazione su Simenon mi è giunta da un articolo [3] incluso nel ricco Speciale Simenon presentato nel 2003 da L’express.fr per il centenario della nascita. L’autore del pezzo mette impietosamente in evidenza i difetti dello scrittore, quelli che critici e lettori che «si erano fatti un’idea alta dell’arte del romanzo» non gli potevano perdonare:
La sua produzione torrenziale, le sue vanterie, il suo gusto per il lusso non potevano che separarlo dall’intelligentsia [che fece di tutto per non premiarlo] … Fallì il Goncourt nel 1937. Venti anni più tardi i giurati del Nobel gli preferirono Camus […] Sicuramente, dei giornalisti e degli autori anche prestigiosi come Céline gli testimoniarono la loro ammirazione. La frase di Gide è in tutte le memorie: «Io ritengo Simenon un grande romanziere: il più grande, forse, e il più autentico romanziere che noi abbiamo avuto nella letteratura francese odierna». Ma l’opinione maggioritaria a Saint-Germain-des-Prés è quella di Paul Nizan o di Jean Paulhan che lo considerano «il Balzac dei poveri di spirito».
Definizione cattiva e non troppo sottile, che oggi ci fa provare un po’ di compassione per chi l’ha pronunciata. Molto più pertinente, la critica di Jean Giono che sostiene la sostanziale somiglianza di temi di tutti i romanzi di Simenon.
Personalmente ho letto abbastanza romanzi – di genere e no – di Simenon per negare la fondatezza dell’analisi: nella serie su Maigret, il commissario è sempre fondamentalmente alle prese con due tipi di persone: uomini che hanno afferrato ricchezza e potere con fatica e non sono disposti a mollare la presa e poveracci sfruttati che tentano di mantenere un tenore di vita piccolo-borghese, trascinandosi dalla casa alla scrivania per anni e anni, fino a non poterne più. Nei romanzi difficili, poi, tornano costantemente alcuni temi (ben evidenziati da Simenon nell’intervista del 1955): la fuga impossibile, la comunicazione quasi irraggiungibile nella coppia e in famiglia, la difficoltà di compiere scelte, l’intollerabile possibilità di divenire estranei alla propria cerchia sociale, come in questo l’Assassino. Ma rimproverarglielo è come rimproverare a Dick di aver sempre raccontato lo sgretolamento progressivo della realtà, o a Proust la sua ossessione per il tema del ricordo.
Se avesse scritto cento libri di meno, la sua opera ne avrebbe potuto guadagnare in qualità, ma non si impedisce a una vacca di dare latte.
Afferma, impietoso ma profondo, l’autore dell’articolo, che termina coniando per Simenon la definizione di «scrittore della grisaglia»:
Si immaginano che egli scriva male perché scrive grigio […] E non si può fare molto per quelli che non comprendono fino a che punto quella sfumatura, unica nella sua semplicità, corrisponda alle storie che racconta.
Così ho capito: io sono un lettore della grisaglia[4]
Il grigio ciò che io noto maggiormente nel mondo: non gli estremi (anche se mi tentano) ma la mediocrità, non il bianco e il nero ma la mezza tinta. Ne avverto la forza tremenda, la pericolosità. Temo i protagonisti grigi di Simenon quando avvertono che qualcosa nel proprio grigio si spezza e non riescono a sopportarlo ma neppure a chiudere gli occhi e far finta di nulla. Come Kuperus che, pur di tornare sui suoi passi, obbliga se stesso e la domestica a giocare a marito e moglie. Come Steve Hogan – protagonista di Luci nella notte –che, dopo una notte brava, torna a fare il buon marito con una determinazione che cancellerà la personalità della moglie. Come Marcel, ne Il treno, che – dopo una fuga in avanti verso la passione – torna alla squallida sicurezza del matrimonio sacrificando l’amante ai nazisti.
La temo, questa gente grigia, che cerca di tornare indietro non facendo nulla. Eppure, grazie a Simenon, la comprendo e non posso più chiamarmi fuori. Se credessi nell’inferno, sarei certa che è grigio.
Georges Simenon
L’assassino
Adelphi, 2011
pp. 153, euro 16,00
trad. Raffaella Fontana
1. Intervista a George Simenon realizzata nel 1955 da Carvel Collins e ora ripresentata da Fandango Libri in Paris Review, interviste, 3° volume pp. 498, € 22,00 appena uscito.
2. Intervista a Georges Simenon realizzata da Bernard Pivot, nel 1981. in occasione di Mémoires intimes.
3. Le narrateur de la grisaille in “spécial Simenon”, L’Express 01/05/2003
4. tessuto, e per estensione abito maschile, di lana grigio o bianco e nero con effetto di grigio. È un abito perbene, sobrio, tipico del borghese, dell’impiegato. Il grisailleo monocromoindica varie tecniche nella pittura, usate per rendere le sfumature di grigio.