La vita è fatta di luci e di ombre… Una frase logora, utilizzata per consolare chi al momento si trova immerso nell’ombra e pronunciata quando non si sanno (o non si vogliono) trovare parole più sincere. Ma, come ogni frase frusta, anche questa contiene una briciola di saggezza: le menti umane che sperimentano la vita sono come vecchi solai e, appena oltre il fievole cerchio di luce proiettato dalla ragione, ospitano ombre fatte di antichi ricordi, esperienze amare, paure mai raccontate. A queste ombre la narrativa attinge per le sue storie migliori, in quegli angoli bui ci conduce quando merita di essere letta. Ed è lì che non vorremmo ma dobbiamo andare per venire a patti con noi stessi e diventare persone più degne.
Fra quelle ombre ci conducono due libri molto diversi, scritti da due donne, l’uno con stile discreto e piano, l’altro col piglio magistrale di una grande scrittrice. Una delle vicende è rievocata con la consapevolezza che dona la distanza temporale, l’altra è narrata momento per momento, senza il filtro del tempo trascorso, ma entrambe sono vissute da ragazze molto giovani: una è ancora quasi una bambina, l’altra è sospesa in una preadolescenza senza tempo. Fin dalle prime pagine le due protagoniste reclamano la nostra attenzione, suggerendo confronti con le nostre esperienze passate e dubbi sulla capacità di comprendere di allora, e rafforzano la nostra consapevolezza che nulla è certo, che oggi siamo diversi da come eravamo e da come saremo. E che proprio perché cambiamo possiamo sperare di imparare dai nostri errori.
… quando ti vedi fare a un’altra persona le peggiori cattiverie, almeno sai di cosa sei capace. Almeno hai il resto della vita per stare più attenta.
Nell’estate del 1972 Spring Hill era uno dei quartieri più sicuri che si potessero trovare nei pressi di una città della East Coast, uno di quei sobborghi sorti dal nulla, dove le casette di mattoni rossi a due piani e i garage doppi erano spuntati come funghi da un giorno all’altro su ettari di prati verdi.
Spring Hill è un sobborgo di Washington abitato da giudiziosi impiegati che ogni mattina si congedano dalla famiglia con un bacio e ogni pomeriggio tornano puntuali dalle mogliettine casalinghe; un piccolo eden ordinato e ordinario nel quale nulla mai eccede la misura, la violenza non esiste, i delitti non avvengono e le notizie di un furto al vicino centro commerciale sono tanto rare da fare scalpore.
Fino a un pomeriggio estivo del 1972, quando la fiorista, in procinto di salire in auto per consegnare un bouquet, sente senza badarci un miagolio provenire dall’ombra, fra i cespugli. Ma non è un miagolio. È il lamento di Boyd, un ragazzino del quartiere, appena stuprato e quasi strangolato da un uomo.
Molti anni dopo Marsha, la voce narrante che allora aveva dieci anni, ricorda ancora ogni particolare di quella sera estiva: gli uomini radunati intorno al padre di Boyd per cercare il bambino scomparso, le donne chiuse in casa con i figli, le telefonate che si susseguono, la madre anticonformista e risoluta che tranquillizza lei e i gemelli quattordicenni, Steven e Julie, rifiutando di lasciarsi contagiare dalla febbre morbosa della caccia al mostro. L’omicidio di Boyd – un bambino viziato e poco simpatico che rubacchia e compie piccoli atti di sadismo – si verifica in un momento particolarmente difficile per la famiglia di Marsha: il padre se n’è appena andato di casa a causa di una relazione con Ada, la cognata più giovane e i gemelli vivono immersi in una complicità adolescenziale a due che la esclude; Marsha reagisce alla paura tenendo il mondo sotto stretto controllo e annotando ogni movimento degli abitanti del quartiere. Oggetto delle sue osservazioni è soprattutto il nuovo vicino di casa, Mr Green, scapolo, solitario e timidissimo, caratteristiche che lo rendono «diverso» e che la gente di Spring Hill è disposta a tollerare in tempi normali ma non gli perdonerà durante la crisi.
Il buio dentro (A crime in the neighborhood è il titolo originale) è l’esplorazione di un microcosmo – apparentemente sereno ma pronto a chiudersi nella diffidenza e nel rancore – condotta da una ragazzina molto intelligente, molto sensibile e piena di sospetto verso il mondo improvvisamente divenuto incomprensibile. Nei mesi precedenti al delitto, Marsha ha scoperto a proprie spese la fragilità degli adulti: il saldo matrimonio dei genitori è risultato poco più di un equivoco, il magico sodalizio tra la madre e le sue tre sorelle, «le fantastiche ragazze Mayhew», non ha retto al colpo del tradimento inferto dalla sorella più amata – «con tutti gli scherzi crudeli e macchinosi concertati insieme non si sarebbe mai aspettata che sua sorella ne giocasse uno simile a lei» – e il padre forte e solido si è rivelato un signore dalle idee confuse che preferisce lasciar decidere alla moglie come mettere fine al pasticcio. Le due zie restanti lasciano le rispettive famiglie e invadono la casa, dispiaciute ma anche molto eccitate:
All’improvviso la casa si riempì di voci femminili che sussurravano stridule, di mormorii fruscianti e minacciosi per una bambina che ha paura di scoprire perché il padre va al lavoro ogni giorno con gli occhi rossi di pianto mentre la madre trascorre le mattine passando l’aspirapolvere come una furia su e giù dalle scale, in ogni stanza, le labbra serrate in una smorfia da gladiatore.
Lucido ritratto di una quotidianità fin troppo pacifica che si vena di irragionevolezza e di sospetto, Il buio dentro è anche un viaggio interiore nella mente di una dodicenne che scopre il potere del rancore e della menzogna. Suzanne Berne ha delicatezza, buon occhio per i dettagli e discrezione; la sua scrittura precisa e sommessa lascia spazio al lettore, che scivola nella vicenda e nelle stradine ben tenute di Spring Hill, si affaccia alle finestre delle villette, origlia i discorsi della gente e, mentre conosce la famiglia di Marsha e i vicini, riconosce un po’ di se stesso. Il finale – giustamente non sconvolgente ma rivelatore – lascia un po’ di amaro in bocca ma anche un po’ di speranza:
È nell’errore che la vita si compie davvero, ecco qual è la verità. L’errore ci gioca un tranello e allora veniamo a sapere ciò che non avremmo pensato di scoprire […] L’errore è quando non sappiamo cosa ci accadrà dopo.
In un certo senso noi umani trascorriamo la vita nell’errore anche quando crediamo di sapere come la nostra vita proseguirà.
Ma dagli errori si può imparare. Come tanti miei simili, anno dopo anno ho scoperto di che cosa sono capace. Per ignoranza, testardaggine, indifferenza. Perché le urgenze di oggi soffocano i sentimenti di ieri e creano paura. Perché è più facile non vedere che fare uno sforzo di immaginazione, che sfilare i propri panni per indossare quelli degli altri. Per fortuna si presentano quasi sempre seconde occasioni e anch’io, come Marsha, sto faticosamente imparando a vederle e a stare più attenta. O almeno a riparare verso altri ciò che non posso più riparare con i diretti interessati.
Dire che Shirley Jackson è una narratrice psicologica e che l’horror nelle sue storie deriva dalle percezioni progressivamente distorte dei suoi protagonisti non arriva a suggerire il potere assoluto che hanno queste visioni. [Kyla Ward, Tabula Rasa, 7, 1995]Shirley Jackson nacque a San Francisco nel 1919 e morì a Bennington, Vermont, nel 1965 per un attacco di cuore (probabilmente provocato dalla dipendenza da amfetamine e da alcolismo), poco dopo la pubblicazione di Abbiamo sempre vissuto nel castello. In vita fu molto apprezzata sia dai lettori sia dalla critica, poi venne quasi dimenticata per un lungo periodo e solo negli ultimi decenni sta ritornando nota a un pubblico che, probabilmente, l’ha già incontrata sulle pagine della antologie scolastiche di lingua inglese – che spesso riportano suoi racconti, in particolare La lotteria. Era una grande scrittrice e autori famosi e appassionati di narrativa fantastica come Stephen King, Neil Gaiman, Nigel Kneale e Richard Matheson dichiarano di essersi ispirati a lei.
Fu proprio con La lotteria (pubblicata sul «New Yorker» nel 1948), una prova di grande, agghiacciante lucidità, che Jackson incontrò una notorietà controversa, tanto che la redazione fu bersagliata di lettere di apprezzamento per la brillante allegoria morale, di protesta contro la violenza apparentemente immotivata della vicenda, ma soprattutto di richieste di spiegazioni. «Veramente è soltanto una storia», pare avesse risposto serafica l’autrice.
Che le sue storie siano ambigue, giocate su più piani e sospese tra una lucida verosimiglianza e atmosfere gotiche e oniriche è provato anche da novelle come Hangsaman, vivida descrizione realistica della vita in un college degli anni Cinquanta, ma anche tenebrosa storia di fantasmi e di possessione. Classicamente gotiche sono poi The Sundial (1958) e L’incubo di Hill House, spesso adattate per il cinema in modo più o meno fedele o usate come libera fonte di ispirazione dagli sceneggiatori.
Abbiamo sempre vissuto nel castello fu pubblicato nel 1963. Opera inconsueta, giocata sui toni della narrazione psicologica, del thriller, del grottesco e della fiaba, sovverte le regole fin dall’inizio, raccontando di una vecchia villa, isolata e temuta dagli abitanti del paese, non dal punto di vista dei temerari decisi a esplorarla ma di coloro che la abitano. La voce narrante è quella di Merricat, una diciottenne scontrosa che vive nell’antica casa di famiglia dei Blackwood con la sorella maggiore Constance e lo zio Julian, unici sopravvissuti a una cena avvelenata che ha invece ucciso i genitori, il fratello e la zia. Scampata al processo per mancanza di prove, Constance è considerata l’assassina dalla gente del paese, che dimostra in ogni modo i suoi sospetti e la sua antipatia per i Blackwood e soprattutto per Merricat, che ogni settimana va a fare la spesa all’emporio comportandosi nella maniera più superba e provocatoria.
Solo quando torna entro i confini della proprietà Merricat si sente al sicuro, libera di scorrazzare nel bosco in compagnia del gatto Jonas, di leggere e di isolarsi in un rifugio segreto. Intanto l’infaticabile e pazientissima Constance coltiva l’orto e il giardino e cucina pasti squisiti al povero Julian, che l’avvelenamento ha reso invalido, e alla sorella minore.
La vita dei tre autoreclusi trascorre quieta, condita di frasi gentili e gesti affettuosi così frequenti da diventare sinistri, tra le memorie che Julian scrive per confutare le accuse a Constance, gli ingenui rituali magici di Merricat per proteggre la casa e i lavori casalinghi di Connie, fino a quando il rozzo e avido cugino Charles si insinua nella famiglia con lo scopo sempre più trasparente di impadronirsi della propria parte di eredità. Sbeffeggiato da Julian, obnubilato ma a tratti grandiosamente caustico, esageratamente tollerato da Connie, bisognosa di una vita normale, Charles fatalmente si scontra con Merricat: il suo egoismo incompatibile con quello non minore della ragazzina romperà un equilibrio stregato che ricorda il sonno della bella addormentata. Personaggio collettivo e apparentemente solo ignobile e malevolo, la gente del villaggio darà infine la stura all’odio e alla paura che prova per gli strani vicini. Nessuno si salva dalla penna caustica e sferzante di Jackson che riesce a regalare alla storia un lieto fine da storia delle fate, altrettanto stralunato e inquietante della realistica esplosione di violenza della gente del villaggio.
Solitaria, disdegnosa, affilata come un rasoio, abilissima nell’individuare qualunque minaccia al proprio benessere, piena della perfida innocenza dei bambini, Merricat vive la sua vita nei boschi intorno alla casa, sospesa in una preadolescenza dalla quale non ha alcun intenzione di uscire. Ben decisa a salvaguardare i consolidati usi e rituali familiari, la ragazza tiene a bada ogni minimo cambiamento ricorrendo a una sorta di magia personale lontanissima da ogni pratica diabolica. Per 182 pagine la sua voce sussurra persuasiva all’orecchio dei lettori, raccontando lo squallore della piccola città di provincia, l’ottusa ignoranza dei paesani, il loro odio per i Blackwood, colti, raffinati, ricchi e cortesemente sprezzanti, che mai hanno voluto mescolarsi con loro. Un odio che si cristallizza attorno a Constance, il capro espiatorio, ma che indubbiamente precede l’avvelenamento. Narratrice seduttiva e convincente, Merricat è il prodotto di una perfetta narrazione gotica: inaffidabile per definizione di genere e per volontà dell’autrice, proprio come l’innocente governante del Giro di vite.
Come il lettore comprende gradualmente, uno dei perni della narrazione è il legame profondo e segreto fra le due sorelle: se nella quotidianità Merricat dipende completamente da Constance, che ne scandisce la vita preparandole i pasti e prendendosene cura fino all’autoimmolazione, vacillando solo temporaneamente quando Charles pare offrirle una via di salvezza e una promessa di vita normale. Determinata, responsabile e piena di senso del dovere, Connie è apparentemente ben diversa da Merricat ma in cuor suo le somiglia fino a diventarne il doppio e la complice.
Abbiamo sempre vissuto nel castello fu adattata per le scene negli anni Sessanta da Hugh Wheeler.
qui ulteriori informazioni su Shirley Jackson:
http://www.tabula-rasa.info/DarkAges/ShirleyJackson.html
http://en.wikipedia.org/wiki/Shirley_Jackson
http://www.nybooks.com/articles/23131
Suzanne Berne
Il buio dentro
De Agostini, pp. 336, € 18,50
Trad. Valeria Bastia
Shirley Jackson
La lotteria
Adelphi 2007, pp. 82, € 8,00
Trad. Franco Salvatorelli
Shirley Jackson
L’incubo di Hill House,
Adelphi, 2004, pp. 283 € 14,80Trad. Monica Pareschi
Shirley Jackson
Abbiamo sempre vissuto nel castello,
Adelphi, 2009, pp. 182, € 18,00
Trad. Monica Pareschi