Il titolo di un grande libro di Oe Kenzaburo recita: Aiutaci a superare la nostra pazzia. Ma come superare, o almeno sopportare, la nostra comune umanità, che ci spinge – per ogni sorta di motivi, spesso irragionevoli se considerati su scala umana e planetaria – a combattere e subire guerre e battaglie, a infliggere e autoinfliggerci sofferenze, ad abbandonare chi ci ama o a impedirgli di andare, se lo desidera?
Non risposi. Per un attimo fissai gli occhi del mio interlocutore, poi sentii che il mio sguardo si volgeva altrove. Per orrore, per vergogna. L’orrore di pensare che ci sono uomini che non dovrebbero esistere. E costui era uno di quelli.
Così, in una prosa nitida, ben resa dalla traduzione attenta di Ruth Leiser, Albrecht Goes inquadra il maggiore Kartuschke, che un cappellano militare incontra per servizio nella città vicina a quella dov’è attestato il suo reggimento. L’incarico assegnato al pastore – assistere nelle sue ultime ore un condannato a morte per diserzione – è difficile, l’atmosfera della Kommandantur sa di servilismo, pettegolezzo e indifferenza alla sofferenza altrui… il contrasto con il paesaggio appena attraversato in auto, ancora dolce del settembre ucraino, è stridente.
I colloqui con il maggiore, con il Giudice del Tribunale militare che amministra «la giustizia con gli stivali» e con il generale che, cappotto sbottonato e faccia rubizza da bevitore, considera l’esecuzione dell’indomani una routine sgradevole e una macchia irritante sul suo stato di servizio, aumentano l’angoscia del pastore. Che gente è mai quella, così priva di dignità, di rispetto per la morte? Come può essersi meritata le medaglie che ostenta sulla divisa?
Deciso a leggere riga per riga l’incartamento del condannato per potergli offrire tutta la dignità e il sostegno morale cui ha diritto, il cappellano si chiude nello stanzone che gli hanno assegnato per alloggio, ma presto la sua solitudine precaria viene invasa da un giovane ufficiale in partenza l’indomani per Stalingrado. Il capitano è discreto, colto, sensibile e la stanza diventa un’isola di civiltà nella barbarie, di umana e fragile solidarietà. Ma le ore passano, quelle a disposizione del condannato sono sempre meno…
Albrecht Goes |
Teologo e libero pensatore, cappellano militare durante la Seconda guerra mondiale, Goes (che nel 1953 ha lasciato il sacerdozio per dedicarsi alla scrittura) descrive con lucida attenzione persone e luoghi, luci e ombre, gesti e moti dell’animo. La cieca burocrazia, un’abitudine alla morte mascherata da efficienza, un peso ormai inavvertito che spinge agli scherzi grevi: «“niente di divertente, eh, dio santo” continuò [il maggiore]. “Meglio una puttanella a letto. Che ne dici, Schrotz?”». Eppure anche quelli come il maggiore sono uomini: «Quell’ufficiale, non c’era dubbio, non aveva nemmeno l’ombra della dignità. Ma dietro tutto questo doveva ben esserci una storia […] E forse valeva la pena di saperla, quella storia».
Il pensiero del pastore – e di Goes – è nitido e non lascia spazio a dubbi:
Che a quel punto – si era ormai nell’ottobre del ’42 – Hitler non avrebbe più potuto vincere la guerra era assodato […] Ma che dovevamo perdere quella guerra, se volevamo avere ancora, in futuro, una vita degna di un uomo, solo pochissimi, a quel tempo l’avevano capito.
In poco più di cento pagine veniamo a conoscenza delle emozioni, dei ricordi e delle riflessioni del pastore, di quelle del suo «collega» tenente Ernst al quale – per uno scherzo crudele del maggiore – è stato assegnato il comando del plotone d’esecuzione della mattina dopo; condividiamo il dolore ormai incancellabile del povero ragazzo condannato e ci sentiamo un po’ meno turbati grazie alla presenza del capitano Brentano e di qualche altro soldato. Incontri fuggevoli, testimonianze di umanità, che ci danno la forza di sopportare, di guardare in faccia ciò che allora altri hanno potuto fare. Ciò che dopo è accaduto ancora, e che ancora accadrà.
Un percorso di lettura denso e doloroso, ma anche consolante, che ci ricorda che esistono punti fermi, limiti da non superare:
Tuttavia, quell’ombra tetra che si diffondeva nella sala non annunciava forse che era impossibile ingannarsi più a lungo sulla realtà, non rivelava forse una verità semplice e severa, e cioè che l’ingiustizia non può portare al bene?
…
Nella sua unicità Kurt era un mostro, non c’è dubbio, però un mostro quasi morale, che aveva stabilito tra la propria sensibilità e il mondo una relazione di non corrispondenza, di non riconoscimento, di incommensurabilità.
Kurt non è sempre stato un soldato della Wermacht, può ricordare un tempo sereno nel quale si occupava della florida sartoria di famiglie e amava, riamato, Rachel. La guerra se l’è ingoiato: la vita militare, i mesi precedenti l’invasione della Francia sono stati duri ma tollerabili, Kurt li ha superati affidandosi alle nuove abitudini e all’antica capacità di lavorare con le mani e di gioire del lavoro ben fatto. Ciò che lo ha radicalmente cambiato, trasformandolo in una sorta di zombie, nel prigioniero volontario di un corpo che non risponde più agli stimoli esterni, che non è più, letteralmente in sintonia con il mondo, è stata la rappresaglia crudelissima e definitiva attuata dal suo superiore dopo un’azione dei partigiani francesi: un intero paese è stato devastato, gli abitanti rinchiusi in chiesa e bruciati vivi. E Kurt ha deciso di averne abbastanza. Ricoverato in un ospedale per casi difficili destinati si soldati invasori ma gestito da personale francese, Kurt non riceve più stimoli esterni, si è chiamato fuori e lascia semplicemente che il tempo, i giorni, la vita scorrano su di lui. Al mondo non ha più nulla da chiedere e sicuramente più nulla da dire.
La sua patologia richiama l’attenzione del medico Lasalle che lo studia con passione e gli dà il soprannome di «metafora», immagine vivente della «incommensurabilità» che la gelida, efficiente crudeltà della guerra ha creato tra l’animo umano e il reale; La dedizione amorosa dell’infermiera Ermelinde e l’intervento di Lasalle regaleranno a Kurt una tenue speranza ma…
Mi rendo conto che, in letteratura, i confronti diretti non sono sempre buoni consiglieri e che, dopo la lettura di Notte inquieta, quasi ogni altro libro sul medesimo argomento mi sarebbe sembrato sciapo e verboso, però…
Nonostante le ottime intenzioni dell’autore e il modo intrigante adottato da Kurt per manifestare il rifiuto e salvare la propria anima, l’esito narrativo di L’offesa, racconto lungo di Ricardo Menéndez Salmón, non è convincente.: lo stile è appesantito da frasi rigonfie, metafore e paragoni urlati invece che suggeriti, accostamenti per lo meno arditi – «una nebbia spudorata» – la narrazione in definitiva è astratta e presenta, dichiara, definisce invece di mostrare, evocare, suggerire… il finale inutilmente simbolico e cervellotico.
La Francia attraversata da Kurt viene descritta ai genitori con frasi da guida turistica, facendo sbadigliare il lettore invece di avvincerlo; il testo oscilla tra l’ansia di puntualizzare i moti dell’animo e quella di mostrare quanto sia adeguata e geniale la metafora incarnata da Kurt che, per il lettore, resta un nome – una metafora letteraria, appunto – e non diviene mai persona.
Sinceramente, viene da chiedersi perché l’autore abbia scelto una vicenda storica ormai tanto scavata umanamente e psicologicamente, e tanto frequentata dalla narrativa da risultare, ahimè, narrativamente «facile»; non sottovaluto affatto l’importanza di continuare a farsi domande, di cercare risposte, di ricordare, ma sono infastidita da una certa aura ricattatoria (magari involontario): come si può non apprezzare un tema così denso? Quale lettore potrebbe tirarsi indietro?
Capisco che le conseguenze terribili provocate dal nazismo e dal fascismo in Europa non debbano restare un territorio frequentabile soltanto da chi le ha vissute (altrimenti ne perderemmo lentamente il ricordo emotivo) però… Perché scegliere un tema e un punto di vista tanto impervio e farne un cimento narrativo? Non ci sono oggi, purtroppo, tante altre guerre, più vicine a noi e altrettanto infami da esplorare?
Libro solo per lettori con pretese intellettuali ma distratti e bisognosi di ripetizioni e semplificazioni.
Albrecht Goes
Notte inquieta
Marcos y Marcos 2012
pp. 115, € 10.00
Trad. R. Leiser
Ruicardo Menéndez Salon
L’offesa
Marcos y Marcos 2008
pp. 152, € 13.50
trad. C. Tarolo
Articolo originariamente pubblicato su LN-LibriNuovi n° 45, Inverno 2008