Bla Bla Bla è il terzo romanzo di Giuseppe Culicchia, giovane autore torinese, da alcuni indicato come «l’autore italiano che tutti aspettavamo» (Cesare Cases), da altri bollato come un collezionista di «luoghi comuni giornalistici» (Massimo Onofri). Il romanzo è uscito preceduto da un giudizio molto positivo di Elena De Angelis, uno dei pochi grandi editor ancora in circolazione in Italia, e mi sono accinto alla lettura inevitabilmente turbato per lo sforzo necessario a non fare una meschina figura davanti al fuoco di simili calibri.
Ma andiamo con ordine. Di cosa parla Bla Bla Bla? Di un giovane apparentemente senza risorse (nelle prime 60 – 70 pagine il protagonista conta e riconta i soldi disponibili, constatando che vanno diminuendo) arenato in una Grande Metropoli Straniera che può essere Amsterdam, Londra, Amburgo, Berlino, Parigi, ma che comunque non è Torino anche perché a Torino c’è una sola linea di metropolitana, pur essendoci un fiume. L’Io narrante affida alle pagine del libro le sue riflessioni, venate di amara (e un po’ scontata) disillusione e di gusto trasgressivo per la decadenza. Depreca la società dei consumi in tutte le sue manifestazioni, smonta e ricostruisce frasi e parole, gioca su allitterazioni, ripetizioni, ellissi, abroga la punteggiatura, inserisce spezzoni di pubblicità, nomi propri di luoghi e persone, marchi, oggetti, spot, griffe.
Fatale che terminino i soldi e altrettanto fatale che il protagonista percorra frettolosamente il pendio che lo porta alla degradazione sociale, fino all’inevitabile morte o forse follia, o forse tutt’e due. Knut Hamsun, premio Nobel per la letteratura (fucilato nel dopoguerra come collaborazionista) aveva scritto negli anni trenta Fame, romanzo affannoso, arrabbiato, disperato e bellissimo, basato su ingredienti molto simili. E il problema diventa: perché Fame è meraviglioso mentre Bla Bla Bla no?
Forse è per il fatto che nel romanzo di Culicchia tutto sembra proprio vero – se cercate bene c’è quasi tutto ciò abitualmente associamo alla ricchezza spendereccia e becera: i Mc Donald’s, la Carta American Express, le auto lucide e la gente stupida ed egoista – tutto talmente vero che il lettore, dispettoso o troppo navigato, comincia a sentirsi a disagio perché un po’ troppo comodo. Anche nei romanzi precedenti Culicchia faceva della critica sociale (a basso voltaggio), pur senza suicidare il proprio personaggio. Qui ha scelto di andare sul drammatico, anzi sull’ossessivo. Il guaio è che di questa discesa agli inferi non viene data nessuna buona ragione interna alla vicenda. Il protagonista è schifato, anzi schifatissimo di belle case, begli oggetti, frigoriferi pieni, donne (pure di quelle bionde, e questa è una novità nell’estetica culicchiana) e anche se non sono bellissime, e sceglie di non far nulla e degradarsi. E perché mai? Il suo personaggio esibisce credenziali da Raskol’Nikov – anche se non ammazza l’affittacamere – e Bla Bla Bla si propone come l’interpretazione italiana di fine millennio della nausea per le merci. Ma in realtà non offre nulla di nuovo o di diverso. C’è la solita bohème, periodicamente reinventata da qualcuno a scadenza canonica, c’è il disgusto per il mondo stupido e volgare (comunque mai condiviso con l’altro sesso, particolare davvero rivelatore) c’è uno spirito libero sconfitto dalla cecità del mondo che lo circonda…
Massimo Onofri in Ingrati Maestri parlava di libri «capaci di accarezzare e consolare le più profonde delusioni politiche». Non credo che ci sia bisogno di Giuseppe Culicchia per stabilire che il pensiero progressista in Europa – nelle sue forme storiche – è arrivato al capolinea. Eppure su questa semplice seduzione – l’autore giovane e disgustato dallo stato delle cose – è basato il successo, anche critico, dei suoi libri.
Giuseppe Culicchia
Bla bla bla
Garzanti elefanti, 2000, pp. 127, € 8,00
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