Ripubblichiamo con molto piacere la prima serie di articoli dedicati alla cultura napoletana, scritti per LN-LibriNuovi da Mario Prisco.
Pubblicati in quattro puntate, da LN 37 a LN 40, erano raccolti sotto il titolo Sulle orme di Goethe per rimarcare la continuità con la tradizione del turismo culturale ottocentesco e delineano una mappa, o meglio una rete di rapporti, tra numerosi scrittori italiani e la città.
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Viaggio nella Napoli letteraria in compagnia di
Mario Prisco
Anche se non con l’intensità rilevabile nell’epoca del Grand Tour, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, Napoli è stata meta preferita di numerosi scrittori italiani.
Uno spazio culturale significativo occupa il soggiorno napoletano di Gabriele D’Annunzio per la sua durata e per la forte visibilità del personaggio, che si trattiene a Napoli per oltre due anni, dal 1891 al 1893. Si tratta di un periodo di particolare importanza nel pensiero del poeta abruzzese, folgorato dalla scoperta del concetto di superuomo elaborato da Nietzsche, che lo porterà a scrivere quello che è considerato uno dei suoi romanzi più riusciti e forse più complessi: Il trionfo della morte che verrà pubblicato in appendice proprio su «Il Mattino», il quotidiano fondato da Edoardo Scarfoglio nel 1891.
Gabriele D’Annunzio
Gli anni trascorsi a Napoli saranno considerati da D’Annunzio tra i migliori della sua vita. Non a caso li definirà di «splendida miseria». Non mancano nelle sue relazioni epistolari descrizioni entusiastiche riguardanti la casa presa in affitto, le gite compiute al Vesuvio, a Baia o le lunghe passeggiate per la città. Ma essenzialmente D’Annunzio a Napoli stringe con Scarfoglio un sodalizio lavorativo che si concretizzerà nella pubblicazione a puntate de L’innocente sul «Corriere di Napoli» dopo che l’editore Treves lo aveva respinto per il suo contenuto considerato immorale[1]. Il poeta, ormai innamorato di Napoli, collabora intensamente al «Corriere» e poi a «Il Mattino»,
si tuffa nella vita mondana locale e diventa ben presto l’idolo dei circoli eleganti e degli ambienti artistici. Alla sua permanenza a Napoli pone fine uno scandalo clamoroso, provocato dalla relazione del poeta con la contessa Gravina. Nasce una bambina. D’Annunzio è trascinato in tribunale dal marito e condannato: nel giugno 1893, in coincidenza con la morte del padre, è costretto a lasciare definitivamente la città che lo ha sostenuto in un momento difficile della sua carriera e che rimarrà profondamente legata al suo personaggio [2].
Annie Vivanti
Nella prima parte degli anni Novanta soggiornò a Napoli per un breve periodo anche Giosue Carducci che vi si era recato con la giovanissima e affascinante poetessa Annie Vivanti.
Il poeta fu accolto dal nutrito gruppo di intellettuali e di scrittori che in quel momento si trovavano in città, anche se un piccolo incidente ne accelerò la partenza. Infatti, una sera in cui il poeta era ospite alla trattoria Pallino (luogo di incontro di numerosi intellettuali napoletani dell’epoca) insieme con la Vivanti, Ferdinando Russo recitò, in maniera appassionata, la canzone, musicata da Mario Costa, Scétate, che garbatamente, come era nel suo stile, egli dedicò alla giovane Annie.
La leggiadra alunna del poeta dell’Inno maremmano non seppe dominare la propria emozione. Ella pianse. Proferì, poi, alcune parole assai fervidamente ammiratrici per gli occhi del Russo, occhi grandi, nerissimi, vellutati, davvero affascinanti. Tutto ciò fu poco gradito all’autore delle Odi barbare. Dopo alcuni giorni, egli e la sua allieva lasciarono Napoli [3].
Carducci era già stato a Napoli in precedenza. Ne è rimasta traccia in una lettera inviata dal capoluogo campano nel 1884 a Severino Ferrari nella quale il poeta telegraficamente commenta: «Ho visto Partenope azzurra tutta immersa nel sole. Ho visto Mergellina, Posillipo, Pompei, Baia, Cuma. Viva Virgilio e Orazio, e alla forca, alla croce, i romantici»[4].
L’avvento e l’affermazione del fascismo non riduce il numero dei visitatori italiani e stranieri che, anche nei decenni precedenti il secondo conflitto mondiale, vi si recheranno lasciando in molti casi testimonianze significative sulla città.
Giorgio Amendola
In questo periodo importanti appaiono le riflessioni di Giorgio Amendola che, pur avendo trascorso una parte della sua infanzia a Napoli, allorché nel 1927 vi ritorna dopo la morte del padre, riesce a rivolgere uno sguardo complessivo alla città. Passeggiando tra i vicoli, il futuro dirigente del Pci nota l’incredibile commistione tra ricchi e poveri che vivono negli stessi quartieri: i primi ai piani superiori e gli altri nei bassi o all’interno dei cortili dove si accalcavano contendendosi «le varie possibilità fornite dalle richieste dei “signori”». Era, aggiunge Amendola, l’economia di vicolo «una sopravvivenza precapitalistica, una plebe che viveva della concentrazione nella capitale della classe dominante di un regno, e che si contendeva le briciole delle rendite strappate alle campagne e consumate in città» [5].
La vista dei bassi aperti sui vicoli gli danno la possibilità di notare la contraddizione tra la povertà nella quale gli abitanti vivono e la pulizia e il decoro che, malgrado tutto, cercano di mantenere nelle loro case.
Negli anni Trenta anche Giuseppe Ungaretti trascorre un periodo di tempo a Napoli e di ciò rimarrà una traccia tangibile nel libro Il deserto e dopo pubblicata da Mondadori nel 1960. Nel brano intitolato Vecchia Napoli, Ungaretti si sofferma in quell’area limitata del centro antico della città compresa tra piazza del Carmine e piazza Mercato, «luoghi sinistri ed epici» per il poeta, in considerazione degli eventi storici qui avvenuti. Infatti, egli scrive, da Corradino di Svevia che vi fu decollato per ordine di Carlo d’Angiò fino a quei sognatori che per primi, nell’ultimo Settecento, vedevano un’Italia unita qui, secondo i rivolgimenti, salirono il patibolo nobili, popolani e borghesi [6].
L’epicità del luogo non riduce la curiosità di Ungaretti a osservare quanto in quel momento avviene intorno a lui. E nell’ometto seduto su di una panchina di piazza Municipio aspettando il terno a lotto, Ungaretti vede una persona che, senza aver letto Pascal, ha compreso la casualità della ricchezza. Tuttavia, sostiene il poeta, quello napoletano non è un «popolo di fannulloni, come corre ancora voce; sono anzi ingegnosi, per il credito stesso che fanno alla fortuna, e laboriosi» [7].
Curzio Malaparte
Forse, afferma Ungaretti, è proprio la lotta per la vita, a Napoli eroicamente combattuta ogni giorno, che ha sollecitato l’animo di grandi poeti come Virgilio, Petrarca, Tasso e Leopardi, che alla città hanno legato le loro strofe migliori.
Diversi furono i giudizi dei visitatori nel periodo compreso tra l’armistizio e la fine del secondo conflitto mondiale. Tra gli italiani spicca quello di Curzio Malaparte che con La pelle susciterà un prolungato clamore sia nei critici sia nei lettori comuni. Si tratta di un testo spietato, a tratti quasi feroce in cui talvolta l’asprezza delle descrizioni è tale da produrre una raggelante repulsione. La crudezza ne La pelle, «è dappertutto: intorno e dentro di noi, più nell’anima che nelle cose» [8].
Il libro, formato da episodi collegati solo dall’aspetto tematico, malgrado il suo fondo realistico, per le descrizioni orribili sembra essere quasi una caricatura in chiave simbolica della realtà. Attraverso vicende che esprimono il massimo della degenerazione umana, lo scrittore tenta di trasmettere la perdita totale di integrità morale vissuta dal Paese dopo l’8 settembre, che a Napoli raggiunse espressioni estreme.
Malaparte racconta una città giunta al più basso livello di degrado morale, in cui la guerra aveva non solo determinato la sconfitta militare, ma aveva consegnato alle truppe di occupazione alleate la propria dignità. Sin dall’inizio del libro, come in un film, si vede sfilare un esercito di donne di ogni età: da quelle più mature, alle bambine di otto, dieci anni che offrono ai passanti la loro unica, possibile merce. Sfilano davanti a loro soldati di tutte le nazionalità possibili: dagli americani, agli inglesi, ai francesi, ai marocchini, agli indiani, agli algerini che senza esitazione «palpavano sollevando loro la veste o infilando la mano fra i bottoni dei calzoncini» [9].
A questi racconti lo scrittore toscano accosta anche le inquietanti descrizioni scaturite dalle passeggiate compiute per la città in compagnia del colonnello dell’esercito americano Jack Hamilton. In maniera a tratti impietosa vediamo comparire da un vicolo lugubre del Pendino un esercito di nane che Malaparte non esita a definire le più brutte del mondo. La descrizione minuziosa del vicolo e delle case trasmette al lettore un desolante sconforto che in alcuni momenti diventa istintiva repulsione.
Poi il romanzo riacquista il suo iniziale spessore allorché lo scrittore cerca di individuare le ragioni della peste scoppiata a Napoli a partire dal 1° ottobre del 1943, cioè «il giorno stesso in cui gli eserciti alleati erano entrati come liberatori in quella sciagurata città» [10]. La peste di cui parla Malaparte è una infida malattia che colpisce l’anima e la coscienza umana, preservandone il corpo. È un morbo maligno che penetra rapido tra la gente fino al punto da annullare ogni vincolo morale e a costringerla a prostrarsi ai piedi dei vincitori. Tutto questo, secondo lo scrittore toscano, accade perché a differenza di quanto era avvenuto nel corso della guerra, durante la quale gli uomini avevano lottato per non morire serbando «la loro dignità» con «ostinazione feroce», dopo la liberazione
gli uomini avevano dovuto lottare per vivere. È una cosa umiliante, orribile, è una necessità vergognosa, lottare per vivere. Soltanto per vivere. Soltanto per salvare la propria pelle. […] Quando gli uomini lottano per vivere, tutto, anche un barattolo vuoto, una cicca, una scorza d’arancia, una crosta di pan secco raccattata nelle immondizie, un osso spolpato, tutto ha per loro un valore enorme, decisivo. Gli uomini sono capaci di qualunque vigliaccheria, per vivere: di tutte le infamie, di tutti i delitti, per vivere [11].
Giovanni Comisso
Anche nell’immediato dopoguerra non mancarono scrittori e intellettuali che si recarono in città, assistendo alla difficile fase della ricostruzione. Nel 1945 nei tipi della Mondadori esce La favorita di Giovanni Comisso, che raccoglie i resoconti dei viaggi compiuti dal giornalista e scrittore trevigiano negli anni Trenta pubblicati la prima volta nel 1937 e ripresentati nell’immediato dopoguerra in forma definitiva. Una delle tappe del lungo itinerario di Comisso fu Napoli, a cui questi dedica un discreto numero di pagine. Lo scrittore va alla ricerca dei tratti distintivi della gente. Così viene immediatamente colpito da «un carro funebre tutto vetri e oro trainato da sei cavalli» [12], che gli sembra una bomboniera. Subito dopo è impressionato dall’incredibile massa umana che si muove per le strade del centro costeggianti i popolosi quartieri interni. Comisso avverte il piacere di questa moltitudine a camminare, a farsi vedere. Lo stile dello scrittore è a tratti volutamente frammentario tanto da avere la sensazione di leggere annotazioni frettolosamente scritte su di un taccuino. Vediamo la gente vagare per le vie della città, comperare la pizza e mangiarla camminando. L’attenzione si sposta poi sui venditori ambulanti che, come era accaduto a Ungaretti, per il loro garbo colpiscono l’attenzione di Comisso.
Nel 1947 fu a Napoli anche Corrado Alvaro per assumere la direzione del «Risorgimento», succedendo a Floriano Del Secolo. Lo scrittore calabrese vi rimarrà tuttavia per soli tre mesi in considerazione degli avvenuti contrasti con gli editori. Nel corso di questo periodo, Alvaro più volte espresse una sua precisa opinione sulla città, non risparmiando critiche anche ai suoi abitanti.
In un editoriale del 13 aprile 1947, intitolato Le case vedute da Napoli, lo scrittore calabrese non esita a denunciare la grave situazione della città, scrivendo:
non si conosce bene fino a quale punto Napoli sia povera, e fino a quale punto essa sia la vittima della guerra perduta; […] le industrie di Napoli sono distrutte come in nessuna altra città italiana; a Napoli è il maggiore agglomerato urbano dei senza tetto. […] Ma a differenza di ogni altra città italiana, l’indifferenza e l’intolleranza, l’irritazione e il rancore, non hanno ancora attaccato l’animo di tanti sofferenti, la vita pur così stretta vi è civile, la genuinità del carattere non pure smessa, la criminalità vi è forse all’ultimo posto della criminalità del dopoguerra. Perdute molte cose, sopravvive qui l’umana tolleranza che è il fondamento di tutte le virtù civili [13].
In altre occasioni Alvaro mostrerà di cogliere l’aspetto più nascosto e intimo della città. In Quasi una vita, ad esempio, egli annoterà: «a Napoli c’è una malinconia commemorativa. Non si sente parlare che del passato. Il presente non esiste» [14]. E più avanti, cercando di interpretare la natura profonda del popolo napoletano, lo scrittore calabrese afferma: «l’usciere che mi porta il bicchiere d’acqua fresca in queste sere assetate, si ferma a vedere come lo si beve con piacere, e ne è soddisfatto. È un senso fisico che non si trova se non da Napoli in giù, la solidarietà fisica nei bisogni fisici» [15].
Nel suo lungo e importante tour per l’Italia, compiuto tra il 1953 e il 1956, su incarico della Rai per la realizzazione di una trasmissione radiofonica, Guido Piovene giunse nel 1955 anche a Napoli. Sorvolando i commenti relativi al costume e alla simpatia napoletana, egli cerca di affrontare immediatamente uno degli argomenti più spinosi degli anni Cinquanta: la selvaggia speculazione edilizia che, a suo avviso, ha dato alla città un aspetto più moderno, ma ha rischiato, senza fortunatamente riuscirci, di distruggere la sua storica e ancora viva bellezza.
Nel suo accurato reportage, Piovene segnala gli interessanti fermenti culturali individuabili a Napoli che, se da una parte continua a sviluppare la grande tradizione di studi crociani, dall’altra vede intensificarsi l’azione svolta dagli ambienti vicini al Partito comunista che ha fatto emergere «alcuni giovani romanzieri, la cui opera è un compromesso tra il gusto di tuffarsi dentro la vita popolare di Napoli, e il proposito, come oggi si dice, sociale, di mostrare dietro di essa una realtà di miseria, tristezza, incipiente rivolta» [16].
Poi l’analisi si sposta sui gravi problemi economici della città e sull’immenso lascito negativo delle questioni irrisolte del Meridione. Piovene si sofferma sull’istituzione della Cassa del Mezzogiorno che ritiene possa assicurare non solo a Napoli, ma all’intero Sud una nuova forza propulsiva. Tuttavia, egli sostiene che la trasformazione in chiave moderna dell’economia napoletana non può escludere né la Napoli turistica, né quella dei quartieri brulicanti di gente dei suoi vicoli. Per questo, afferma lo scrittore, bisogna essere cauti «di fronte ai piani sbrigativi di risanamento affidati al piccone» [17].
Piuttosto che devastanti sventramenti, quindi, occorrono secondo l’intellettuale vicentino accorti provvedimenti di risanamento edile e igienico. Allo stesso modo è importante realizzare la piena articolazione dei settori economici per cui, accanto all’industria, motore dello sviluppo, si devono incentivare, a suo avviso, altri settori dell’economia cittadina.
Di un’altra Napoli, poco scrutata anche dagli autori napoletani, ci parla lo scrittore romano, di origine toscana, Ottiero Ottieri, che nel 1958 pubblica presso l’editore Bompiani Donnarumma all’assalto. Ottieri evita di identificarsi nel protagonista del romanzo, ma risulta subito chiaro che la vicenda raccontata riprende integralmente l’esperienza vissuta dall’autore anni prima presso la Olivetti, anche se i nomi, a cominciare dalla fabbrica che viene chiamata Santa Maria, non corrispondono a quelli reali.
Se i sistemi di selezione del personale, l’analisi della condizione e dell’alienazione umana svolta sulla base degli studi più accreditati hanno sollecitato la costituzione di un’industria come quella di Santa Maria, al tempo stesso gli aspiranti operai hanno più modeste aspettative, come emerge da uno dei primi colloqui. «Che scuola avete fatto?» domanda il tecnico a uno degli operai che chiede di essere assunto e si sente rispondere: «Nessuna scuola. La scuola ce l’ho in testa. A me mi piace di faticare. […] Io sono alfabeta con sette figli, ma mi piace di faticare, devo mangiare. Io vi servo più di tutti gli altri» [18].
Davanti a quella massa di uomini in cerca di un lavoro qualunque, il tecnico che li esamina vede nei loro occhi l’antica tristezza e lo spavento propri di coloro che «stanno dignitosamente schiacciati fra l’ossequio e la speranza»[19].
Moravia, Pasolini e Ottieri
Le prove psicotecniche, che dovrebbero garantire quella legalità e democrazia fondamentali per far crescere una società, diventano quindi un ulteriore elemento discriminante. Nonostante il desiderio di voler risolvere i problemi e di creare occasioni di crescita, tutto irrimediabilmente sembra svanire nelle parole di Donnarumma, aspirante operaio, che vuole lavorare senza compilare domande, né sottoporsi ad alcuna prova: «Che domanda e domanda. Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere» [20].
A differenza di quanto era avvenuto negli anni precedenti, nel corso dei decenni Sessanta e Settanta l’interesse per Napoli scema fortemente. Infatti, il numero dei visitatori che si ferma in città cala in maniera significativa. Anzi, spesso Napoli diviene solo la tappa fugace dalla quale partono itinerari diretti verso le isole del Golfo. Questo trend negativo coinvolge anche gli scrittori e gli intellettuali provenienti sia da altre aree del Paese, sia dall’estero. Pertanto, i resoconti di viaggi o i libri che si soffermano sulla città risultano decisamente esigui. Tra questi c’è Fratelli d’Italiadi Alberto Arbasino, pubblicato la prima volta da Feltrinelli nel 1963, nel quale l’autore, in maniera romanzata, racconta un itinerario compiuto nell’Italia agli albori degli anni Sessanta, esprimendo anche le sue considerazioni su Napoli che appaiono aprioristicamente sprezzanti e basate su biechi e inconsistenti luoghi comuni. A Napoli, afferma Arbasino, «vorrei starci sempre il meno possibile».
Mai combinato niente e sempre litigato con tutti. Una depressione, sempre. L’orrore delle strade, l’orrore della gente, la compassione o l’indignazione ogni volta, ma come si fa. Davvero è un posto che non mi dice niente, non ha niente da darmi, non mi importa niente, perciò trovo inutile venirci […] giacché non mi interessano il sole pittoresco e i golfi folklorici, e non so cosa farmene delle furberie stradali e della pizza alla marinara [21].
Non è la negatività del giudizio a essere irritante, ma la presunzione di liquidare la complessa problematica della città sulla base di poche e affrettate informazioni.
In Gennariello, uno scritto inserito nelle Lettere luterane, Pier Paolo Pasolini nel 1975, pochi mesi prima della morte, cerca di affrontare da una angolazione antropologica, non priva di forti considerazioni politiche, il discorso su Napoli. Polemicamente e, come al solito, in decisa controtendenza Pasolini sostiene che nel profondo degrado culturale e morale dell’Italia del dopoguerra, Napoli appare come l’ultima autentica realtà capace di opporsi alla dirompente massificazione in corso nel Paese. Preferisco, egli afferma,
la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani alla scenette della televisione della repubblica italiana. Coi napoletani mi sento in estrema confidenza, perché siamo costretti a capirci a vicenda. […] Io con un napoletano posso semplicemente dire quel che so, perché ho, per il suo sapere, un’idea piena di rispetto quasi mitico, e comunque pieno di allegria e di naturale affetto. Considero anche l’imbroglio uno scambio del sapere. Un giorno mi sono accorto che un napoletano, durante un’effusione di affetto, mi stava sfilando il portafoglio: gliel’ho fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto [22].
Pasolini, in definitiva, considera la realtà napoletana una sorta di oasi che si oppone al ripetitivo conformismo vigente. Napoli, invece di essere oggetto dell’analisi pasoliniana, diviene il pretesto utilizzato dall’autore per soffermarsi sui profondi mali del suo tempo. Napoli è considerato un luogo assolutamente distante (e non sempre per motivi positivi) dall’estrema omologazione che, in netto anticipo rispetto ai tempi, egli aveva intravisto nella società italiana.
Gli ultimi due decenni del Novecento e i primi anni del nuovo millennio sembrano sollecitare nei visitatori giudizi sempre più estremi. I danni prodotti dal terremoto e la difficoltà a tornare a una condizione di normalità anche esteriore, unitamente all’accentuazione del fenomeno camorristico e alla crescente percentuale di disoccupazione giovanile, finiscono per dare della città un’immagine fortemente negativa e talvolta perentoria che sembra dare il destro a giudizi frettolosi come quello esposto, agli albori degli anni Ottanta, da Guido Ceronetti che, in un suo resoconto di viaggio, scrive: «nessun luogo, in Italia, mi sembra più insopportabile e disumano per viverci, di Napoli» [23].
Guido Ceronetti
Secondo Ceronetti ci sono due uniche possibilità di salvezza per i napoletani: quella di fare il prete nella chiesa del Gesù Nuovo o farsi assumere all’Italsider. Solo in questo modo, afferma provocatoriamente lo scrittore torinese, si può stare lontani dai «demoni napoletani». Se è vero che ogni parere deve essere rispettato in nome della sacralità della libera espressione verbale (unico motivo che ci costringe, nostro malgrado, a citare questo scritto) è altresì vero che quando si travalica il senso del decoro si ha una indiscutibile e speriamo comprensibile indignazione. Non si può affermare che «a Napoli non senti di appartenere a un aggregato, a una comunità di esseri affini» quando chi scrive non ha fatto altro che trascorrere poche ore della sua vita in questa città.
Nella contraddittorietà dei giudizi è forse rilevabile la difficoltà di interpretare una città complessa come Napoli che in ogni suo angolo mostra un aspetto diverso di sé e che nei secoli ha fatto in modo da suscitare reazioni estreme non solo nei visitatori più o meno attenti, ma anche negli stessi scrittori napoletani raramente capaci di superare le maglie strette dell’autodenigrazione o dell’autoreferenzialità, magnificamente fuse nelle parole di Goethe che, in visita al Vesuvio, affermò di essere su una «cima infernale, troneggiante al centro del paradiso.»
Note
1 Il romanzo viene poi pubblicato dall’editore Bideri nel 1892. Nello stesso anno un altro editore napoletano, Pierro, fa uscire Giovanni Episcopo.
2 A. Ghirelli, Napoli italiana, Einaudi, Torino 1977, p. 106.
3 O. Giordano, Ferdinando Russo. L’uomo. Il poeta, Eugenio De Simone, Napoli 1927, p. 29.
4 La lettera è stata riportata da Dante Manetti, Aneddoti carducciani, Bietti, Milano 1939, p. 155.
5 G. Amendola, Una scelta di vita, Rizzoli, Milano 1978, p. 157.
6 G. Ungaretti, Viaggio nel Mezzogiorno, a cura di F. Napoli, Alfredo Guida Editore, Napoli 1995, p 64
7 Ibid., pp. 72-73
8 L. Martellini, «Introduzione», in C. Malaparte, Opere scelte, Mondadori, Milano 1997, p. LXIX.
9 C. Malaparte, La pelle, ibid., p. 974.
10 Ibid., p. 992.
11 Ibid., p. 1006.
12 G. Comisso, La favorita, Mondadori, Milano 1945, p. 182.
13 L’editoriale è riportato da F. Frascani, Le due Napoli di Corrado Alvaro, Arturo Berisio, Napoli 1969 pp. 95-95.
014 C. Alvaro, Quasi una vita, Bompiani, Milano 1994, p. 407.
15 Ibid., p. 419.
16 G. Piovene, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano 1963, p. 343.
17 Ibid., p. 351.
18 O. Ottieri, Donnarumma all’assalto, Bompiani, Milano 1963, p. 17.
19 Ibid., p. 37.
20 Ibid., p. 121.
21 A. Arbasino, Fratelli d’Italia, Einaudi, Torino 1976, p. 17.
22 P. P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 15-16.
23 G. Ceronetti, Albergo Italia, Einaudi, Torino 1985, p. 50.