L’uomo che fu Giovedì è un romanzo sorprendente, magicamente sospeso tra la vaudeville – ricca di colori e atmosfere prese a prestito dal gotico – e ciò che oggi definiremmo thriller o spy-story.
Si comincia con una società segreta anarchica, spettro politico tipico dell’Europa in epoca vittoriana. Al vertice del Comitato Centrale della Nuova Anarchia sette membri, biblicamente ribattezzati con il nome dei giorni della settimana. Il protagonista, il poliziotto Gabriel Syme, riesce a introdursi nella società segreta – dai fini e dagli intenti lasciati volutamente vaghi o grottescamente deformati – nei panni di Giovedì.
E da qui hanno inizio le sue e le nostre sorprese. Sorprese che riguardano l’identità degli altri membri «feriali» del gruppo (Lunedì, Martedì ecc., fino a Sabato) e del loro capo, l’insigne, inafferrabile, indicibile Domenica.
Mentre attraversava la stanza che portava al balcone, il faccione di Domenica gli appariva sempre più grande, finché fu improvvisamente colto dal terrore che, una volta a tu per tu con quel viso, esso si sarebbe rivelato troppo grosso per essere verosimile e che egli si sarebbe messo a gridare. Ricordò che da bambino non aveva mai voluto guardare la maschera di Memnon al British Museum perché era simile a un volto umano, ma paurosamente più grande.
G.K.Chesterton
La figura di Domenica, i suoi pensieri, la sua visione del mondo sono mutevoli, inafferrabili. Imperscrutabili, verrebbe da dire.
Giovedì, cui la fortuna e l’abilità hanno permesso di giungere a sciogliere il mistero della società segreta, davanti a Domenica è impotente, esattamente come Lunedì e gli altri. A Domenica appartengono qualità e visioni che a nessuno di loro sono concesse. Domenica è un grande, grandissimo furfante, più grande di quanto chiunque possa immaginare, un imperscrutabile criminale o è un santo, una creatura senza peccato originale, una visione, una creatura ultraterrena? O tutte e due le cose?
Chesterton non fornisce risposte. Domenica è essere e apparire insieme, i suoi gesti, le sue parole non possono fornire alcun indizio sulla sua natura, egli (Egli?) è completamente, definitivamente ambiguo. Leggendo ritorna alla mente un altro libro memorabile: Flatlandiadi Edwin Abbott. Provate a immaginare come apparirebbe un cristallo in movimento nell’immaginario mondo a due dimensioni di Abbott. Una semplice superficie, certo, ma cangiante, mutevole, instabile, a volte linea, a volte poligono, imminenza e movimento, incertezza di intenzioni e di disegno. Questo almeno per noi, esseri soltanto tridimensionali, che non possiamo neppure immaginare i motivi di una creatura che non fa parte del nostro mondo.
Se nel Club dei mestieri stravaganti la mente razionale cede il passo alla percezione, all’«anima» e alla «grazia» (cfr. LN23), ne L’uomo che fu Giovedì Chesterton cerca di ingaggiare tra i suoi personaggi direttamente l’Altissimo e la Sua imperscrutabile volontà, da noi malamente chiamata Destino o Provvidenza,
Non è un Dio buono, quello di Chesterton. O almeno non è un Dio bonario. Nella sua natura c’è la crudeltà dell’infinita conoscenza. A Giovedì-Gabriel Syme, poliziotto poeta dotato di troppa fantasia, appare magnifico e alieno. Temibile e misterioso.
Il registro resta quello abituale di Chesterton, mistico e raffinato buffone che non perde occasione per accelerare il ritmo, sorprendere convinzioni e convenzioni del lettore, rovesciare il senso e la direzione di fatti e parole. Per ridere e far ridere di una Gran Bretagna vittoriana inalterabile e rispettabile.
Leggere Chesterton è un’esperienza sinceramente raccomandabile. Pochi autori possono contribuire (in soggetti felicemente predisposti) a cambiare così profondamente la percezione della realtà semplicemente insegnando a cercare costantemente un ulteriore, impensato punto di vista.
Da leggere e da rileggere a intervalli di tempo, tutte le volte che si ha timore di prendere il mondo troppo mortalmente sul serio.
G.K. Chesterton
L’uomo che fu Giovedì
Bompiani, 2007
pp. 227, € 8,90
Trad. Milly Bortolotti