di Massimo Citi
Questo volume biografico del fotografo e pittore Joe Heydecker è stato preceduto nel 2000 da Il ghetto di Varsavia, edito da Giuntina. Una raccolta di fotografie che risulta largamente inadeguato definire agghiacciante e che l’autore così presentava:
Nel volume di immagini […] ricavato molti anni più tardi dalle mie riprese, il terrore parla ai contemporanei e alle generazioni future. Non serve negare. Quello che qui è stato inflitto a umane creature, a uomini e donne, bambini e vecchi, malati e moribondi non si cancella. La parola «riparazione» rivela a riguardo stupida ingenuità o tronfio cinismo.
Joe Julius Heydecker |
Joe Heydecker è stato sottufficiale della Wehrmacht. Nato nel 1916 a Norimberga da genitori laici e moderati, simpatizzanti del «Zentrum», il partito di centro. Figlio di intellettuali, appassionato di pittura e fotografia assiste con angoscia al rapido degradarsi della vita democratica nella Germania dei primi anni trenta. Suo padre, impresario teatrale, nel 1933 mette in scena un’operetta di Lehár, Il conciabrocche, dove appare «la maschera del buon ebreo Wolf-Bär Pfefferkorn». Quanto basta a Julius Streicher, Gauleiter della Franconia, per scatenare una furiosa campagna denigratoria contro «il viscido servo degli ebrei Heydecker». Il padre di Joe denuncia Streicher e (incredibilmente) vince la causa ma decide ugualmente di abbandonare la Germania con la moglie nel marzo del 1933. A diciassette anni Joe raggiunge genitori in Svizzera. Da lì la famiglia si sposta in Austria e, dopo l’Anschluss, ritorna in Germania, a Berlino.
Joe viene reclutato il giorno precedente all’attacco alla Polonia. Pessimo soldato, pur essendo un ottimo tiratore sbaglia accuratamente i bersagli alle prove di tiro per non essere inserito nei reparti di tiratori scelti e dopo la campagna in Francia è destinato, in quanto fotografo, nella compagnia di propaganda militare alle spalle del fronte russo.
A Varsavia, nelle retrovie, utilizza i locali e i materiali del reparto per sviluppare e stampare le foto che documentano le terrificanti condizioni di vita nel ghetto di Varsavia nei mesi che precedettero la Rivolta.
Ai militari tedeschi è vietato l’ingresso nel Ghetto:
Il ghetto era stato eretto proprio quando arrivai a Varsavia, nel gennaio del 1941. […] comprendeva un quartiere in cui prima della guerra avevano vissuto circa 160.000 persone. Nello stesso spazio […] furono ammassati circa 400.000 ebrei. […] Ero in un territorio nel quale era severamente proibito introdursi. Nessuna plausibile scusa mi sarebbe bastata, se fossi stato scoperto.
Heydecker vi si reca più volte, fotografando, parlando con i reclusi. Lo fa per «documentare la situazione del ghetto di Varsavia»,
Ero convinto che, più tardi negli anni, nessuno avrebbe più creduto a quello che era avvenuto qui sotto il dominio tedesco. Presi così la decisione di […] fissare per tutti i tempi a venire la vergogna del mio popolo.
Heydecker non è stato un «eroe» né un personaggio da film. La sua intolleranza per il regime nazista non nacque tanto da elevati sentimenti o da mature riflessioni filosofico-politiche: «ero sentimental- mente ostile al nazionalsocialismo», scrive l’autore nelle prime pagine del suo libro. E non ritorna più direttamente a spiegare i motivi della sua condotta, come se – e come effettivamente è – dilungarsi fosse inutile.
Guidato da un sentire «immediato» e da una buona dose di «metodica incoscienza», come forse l’avrebbe chiamata lo stesso Heydecker, fotografa, scrive, organizza la stampa e la diffusione di un opuscolo antinazista che circolerà tra i soldati tedeschi.
Ma Heydecker non concede a nessuno facili scappatoie o alibi tardivi. «Chi non ha visto non ha voluto vedere», scrive.
Non so veramente quanti ciechi e sordi abbiano servito nella Wehrmacht e nelle altre organizzazioni all’Est. […] Noi avevamo notizia degli avvenimenti, anche se non sempre a sufficienza […]; in ogni caso non era un segreto l’annientamento di massa degli ebrei.
Risparmiato dalla guerra Heydecker lavorò per diversi giornali tedeschi. Nel 1960 si trasferì in Brasile con la famiglia e fece ritorno in Europa, a Vienna, nel 1986, dove visse fino al 1997, anno della sua morte.
Le verità esposte da Heydecker, la sua ruvida franchezza nell’infrangere il mito della pretesa «innocenza» della Wehrmacht nell’annientamento (Vernichtgung) della popolazione ebraica nell’Est europeo crearono non poche difficoltà alla pubblicazione della sua biografia di guerra, tuttora inedita in lingua tedesca. La pubblicazione della sua raccolta di foto (das Warshauer Ghetto) avvenne in Germania soltanto nel 1983 grazie all’impegno di Heinrich Böll. Chi non aveva visto continua a non voler vedere.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere La mia guerra è un libro vivace, scorrevole, in qualche momento divertente o paradossale. La vita militare, di qualunque genere e in qualunque epoca, possiede una dimensione autocaricaturale e assurda che è possibile cogliere anche senza forzature. Heydecker non fa appello a dottrine morali o politiche nel narrare la sua guerra. Semplicemente racconta, descrive, riferisce dei suoi dubbi, delle sue convinzioni, degli atti compiuti da lui e anche dalla moglie:
[…] segretaria nel dipartimento interni dell’amministrazione [della Polonia occupata, N.d.R.] […] nel suo ufficio manipolava fascicoli relativi ai ricercati che erano ammucchiati sullo scrittoio del capodipartimento. Provvedeva a esaminare rapidamente il contenuto e a spostare gli atti, a seconda dell’urgenza, dagli strati superiori verso il basso. Questo comportava […] da due a tre giorni di ritardo, che specialmente in caso di fuga potevano offrire al ricercato un buon vantaggio. Non poteva far sparire gli atti perché la cosa sarebbe stata presto scoperta. La tecnica del ritardo può avere significato la salvezza per qualcuno.
Nulla di più, nulla di eroico o di sovrumano. Quanto può bastare, tuttavia, per testimoniare di coscienze vigili, di un’incapacità di ignorare e nascondersi. L’esistenza di questo genere di persone, le loro testimonianze risultano così ancor più intollerabili per gli altri. Se qualcuno ha visto, sapeva e ha fatto qualcosa, che dire di chi ha scelto di credere a pietose bugie o si è aggrappato all’impotenza illusoria degli «ordini ricevuti».
A Smederevska Palanka, una piccola città serba, nel 1978 fu eretto un piccolo monumento. L’iscrizione, in tedesco e in serbo, ricorda il soldato Joseph Schultz. Apparteneva a un reparto della divisione di fanteria 714, che il 20 luglio 1941 ricevette l’ordine di uccidere quindici partigiani belgradesi. Il plotone era schierato di fronte ai condannati e aveva messo mano alle carabine. Schultz mise il fucile al piede. Il comandante lo sgridò. Lui allora mise via l’arma, a passi lenti si avviò verso i partigiani e si pose nelle loro fila. «Fuoco!». Assieme ai partigiani cadde Joseph Schultz di trentun anni.
Non sono pochi gli eventi come questo nel racconto di Heydecker, a testimoniare di una resistenza prima umana che politica all’annientamento. Ciò che serve a rendere il libro di Heydecker non soltanto una sincera testimonianza ma anche un omaggio a chi nonostante tutto scelse di resistere, regalandoci speranza per il nostro mondo e per noi stessi.
Joe Julius Heydecker
La mia guerra – Sei anni nella Wehrmacht di Hitler. Rapporto di un testimone
Editori Riuniti 2002, pp. 301, ill., € 20,00
Trad. Rosario Muratore
(libro non più disponibile in commercio ma reperibile in biblioteca)